Si teneva 103 anni fa a Livorno, il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, che sancì, dopo anni di contrasti, la separazione della corrente massimalista che fonderà il PCd’I.
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Per risalire all’origine della spaccatura bisogna tornare di qualche anno indietro: nel marzo del 1919 sorge il Comintern, o Internazionale Comunista, per opera dei russi bolscevichi. Esso si pone come successore della Seconda Internazionale, fondata a fine ‘800 e dissoltasi durante la prima guerra mondiale, ma la differenza principale sta nell’opposizione all’idea del Socialismo Riformista o Democratico, ovvero la graduale trasformazione dello Stato in socialista tramite interventi economico-sociali tipici dei sistemi liberaldemocratici.
Sin da subito si pose come un’organizzazione a guida sovietica, con la Direzione affidata ad un comitato esecutivo permanente situato a Mosca, e nel II° Congresso, su ispirazione di Lenin, furono stilati i 21 punti di adesione al Comintern che saranno la base della frattura di Livorno.
Si trattava di 21 punti rigidi e dettagliati per l’ammissione dei partiti all’Internazionale stessa. Vi era posta la necessità di allontanare dai partiti gli esponenti riformisti, ritenuti dei controrivoluzionari, inoltre avrebbero dovuto tutti adottare la nuova denominazione di “partito comunista” in quanto “La differenza tra i partiti comunisti e i vecchi partiti “socialdemocratici” o “socialisti” ufficiali, che hanno tradito la bandiera della classe operaia, dev’essere resa comprensibile ad ogni semplice lavoratore”.
Il PSI aveva aderito all’Internazionale Comunista fin dal XVI Congresso di Bologna dell’ottobre 1919, che vide l’affermazione della corrente massimalista su quella riformista e la centralità assunta dai temi della conquista violenta del potere e della dittatura del proletariato. Ma l’accettazione dei 21 punti non venne accolta da Giacinto Menotti Serrati, allora a capo della frazione massimalista, che riteneva controproducente l’espulsione di illustri rappresentanti quali Filippo Turati, Claudio Treves e Ludovico D’Aragona.
Si arrivò così alla vigilia del XVII Congresso in un clima infuocato e con un partito diviso in frazioni: vi erano i riformisti guidati da Turati, i massimalisti di Menotti Serrati, e i comunisti ”puri” di Amedeo Bordiga. Una situazione dove era ormai ritenuta come irrevocabile la “scissione a sinistra”. Infatti, mentre grossa parte dei comunisti riteneva sempre più necessario la separazione per salvare la prospettiva rivoluzionaria a breve termine, la maggioranza massimalista cui veniva a ricadere la scelta definitiva su quale minoranza avrebbe dovuto lasciare il partito, rimaneva scettica sull’espulsione dell’ala riformista.
il Congresso si aprì il 15 Gennaio, con dibattiti sull’indirizzo da seguire e tentando la ricerca d’unità tra comunisti e massimalisti, che ritenevano fosse ancora possibile portare la maggioranza sulle posizioni del Comintern, e proponevano come compromesso la denominazione di “partito socialista comunista italiano”.
Altri discorsi si ebbero il 18 gennaio, con Costantino Lazzari, appartenente alla minoritaria frazione degli “intransigenti rivoluzionari”, che criticò gli scissionisti e ribadì come fosse indispensabile l’unità proletaria, come forza ulteriore al Comintern. Affermò la sua contrarietà all’espulsione dell’ala riformista, seguendo principio «libertà nel pensiero e disciplina nell’azione».
Degno di nota fu l’intervento del 19 gennaio di Filippo Turati, una riflessione sull’identità socialista. Tenne un discorso sulle ragioni del socialismo dove delineò le profonde divergenze ideologiche con i comunisti, egli opponeva alla soluzione rivoluzionaria violenta la strada del riformismo come “opera quotidiana di creazione della maturità delle cose e degli uomini”, che sarebbe sopravvissuta al “mito russo”, da Turati considerato un nazionalismo nascosto.
Il 21 gennaio, con la proclamazione dei risultati delle diverse mozioni presentate, si ebbe la vittoria di quella unitaria, sottoscritta da Serrati e Baratono, su quelle comunista e concentrazionista. Bordiga quindi formalizzò la scissione, affermando che la maggioranza del Congresso si era quindi posta fuori dalla Terza Internazionale, ragion per cui i delegati della mozione comunista cantando l’Internazionale abbandonarono la sala, recandosi al Teatro San Marco, dove si svolgerà il I Congresso del Partito Comunista d’Italia.
La questione riformista però si protrarrà ancora, venendo risolta infine nel XIX Congresso di Roma dell’ottobre 1922: a causa della partecipazione di Turati alle consultazioni, in occasione della crisi di Governo, venne decretato dalla frazione massimalista di Serrati e Maffi l’espulsione dei gradualisti, che si uniranno ad una frazione di dissidenti della maggioranza per dare vita al Partito Socialista Unitario.
Nel 1923 Antonio Gramsci ebbe a criticare il “modo” della scissione, cioè il fatto che la frazione comunista, nel periodo precedente il Congresso, non fosse riuscita a condurre verso il Comintern la maggioranza del proletariato, spianando la strada all’avvento del fascismo. Ma la Storia giudicherà e ha giudicato tali scelte, poiché fu grazie a questa e alle successive divisioni interne, il cui picco di cattiva organizzazione si ebbe nella Secessione aventiniana, che il fascismo si ritrovò spianata la strada per salire al potere. Anche i valori di quell’idea iniziale sono oggi indifendibili, non a caso il comunismo, con la caduta del Muro di Berlino, è finito sconfitto dalla Storia e dalle persone che lo avevano praticato/subito.
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