A 100 anni dall’assalto degli squadristi guidati da Italo Balbo contro la Federazione delle cooperative di Ravenna
Abstract: L’attacco delle squadracce fasciste guidate da Italo Balbo del 27 luglio 1922 alla sede della Federazione delle cooperative di Ravenna aveva l’obiettivo politico di demolire il modello cooperativo mutualistico e l’organizzazione autonoma dei lavoratori delle cooperative, e lo scopo pratico di favorire gli interessi dei proprietari terrieri e degli industriali che finanziavano il fascismo e volevano lavoratori gestiti dall’alto dei datori e non autonomamente tra loro, in modo da concedergli pochi diritti e bassi stipendi. La violenza fascista seguì la strage di Porta Adriana a Ravenna del giorno prima e precedette di pochi mesi la Marcia su Roma e il ventennio del sanguinario regime fascista che ne seguì.
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La nascita del modello cooperativo e il contesto sociopolitico dal 1883 al 1919
Ravenna è stato un faro per la cultura cooperativa italiana. In questa città l’8 aprile del 1883 un gruppo di braccianti della provincia diede vita all’Associazione generale degli operai braccianti del Comune di Ravenna, stabilendo la prima sede in una casa di via Carraie.
Questo esempio fu seguito da tanti altri lavoratori in altri settori portando in 20 anni una certa rivoluzione nell’organizzazione del lavoro in tutta la Romagna e l’affermazione del modello cooperativo sempre più diffusamente. In conseguenza di ciò il 25 maggio del 1902 fu costituita la Federazione delle cooperative della Provincia per coordinare le varie cooperative sorte a cavallo dei due secoli sul territorio ravennate.
Lo sviluppo della Federazione fu per certi versi impetuoso e inaspettato, tanto che, nel 1919, su impulso Federazione delle Cooperative di Ravenna, Ferrara, Bologna e Milano, fu costituita anche una Federazione nazionale delle cooperative.
L’affermazione del modello mutualistico cooperativo e dell’organizzazione autonoma dei lavoratori delle cooperative era sempre più inviso ai proprietari terrieri e agli industriali che iniziarono a finanziare il nascente movimento fascista per contrastare questi fenomeni che ledevano i loro interessi aumentando i salari e i diritti dei lavoratori.
Anche la monarchia, che tendenzialmente guardava sempre con sfavore qualsiasi possibile minaccia allo status quo e, soprattutto, ascoltava le preoccupazioni della nobiltà latifondista, contrastava con la forza pubblica qualsiasi manifestazione dei lavoratori e tollerava con una certa connivenza le violenze delle squadracce fasciste.
Gli anni ’20, dal “biennio rosso” all’avvento del Fascismo
Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fondò a Milano da Benito Mussolini i Fasci Italiani di Combattimento, erede diretto del Fascio d’azione rivoluzionaria, da lui patrocinato assieme ad Alceste de Ambris e Angelo Oliviero Olivetti, movimento politico legato al mondo degli interventisti rivoluzionari e ispirato al manifesto programmatico denominato Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista datato 5 ottobre 1914.
Alle elezioni politiche del 16 settembre 1919 si affermarono due partiti di massa: il Partito Socialista Italiano, primo partito con il 32% dei voti e 156 seggi, e il neonato Partito Popolare Italiano di don Sturzo che, alla sua prima prova elettorale, ottenne il 20% dei voti e 100 seggi. Il movimento fascista, presentatosi nel solo collegio di Milano, con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti, raccolse meno di 5.000 suffragi sui circa 370.000 espressi, non riuscendo a eleggere alcun rappresentante.
Tra il 1919 e il 1920 ci furono numerose rivolte, soprattutto nellItalia centro-settentrionale, con mobilitazione di operai, contadini, braccianti ma anche da parte di reduci e mutilati della Grande Guerra per protestare contro la grave crisi economica e la povertà diffusa e chiedere una politica sociale e assistenziale verso le classi più deboli, culminate con l’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920. I movimenti socialisti massimalisti, di ispirazione bolscevica, e anche quelli riformisti moderati sostenevano e fomentavano queste rivolte e si affermarono anche in alcune amministrazioni comunali.
Questo periodo fu definito “biennio rosso“, espressione utilizzata con una valenza fortemente negativa da parte delle classi possidenti, spaventate dalle lotte operaie e contadine, per giustificare la reazione delle squadre fasciste e la successiva affermazione del regime di Mussolini.
Il 9 novembre 1921 i Fasci Italiani di Combattimento divenne il Partito Nazionale Fascista con la guida assoluta di Benito Mussolini.
La prima strage del 26 luglio 1922
Nel 1922 Ravenna si trovava ormai isolata nel contesto di una pianura padana caduta sempre più nell’orbita fascista. D’altra parte anche la situazione politica interna, con gli scontri fra socialisti e repubblicani, e le stesse divisioni interne al Pri, contribuivano a creare terreno fertile per un colpo di mano del partito di Mussolini.
Il piano di scontro non era però solo quello politico, era lo stesso mondo del lavoro e la forte realtà cooperativa del Ravennate a creare il terreno per un conflitto. L’occasione per un contrasto aperto si presentò la mattina del 26 luglio 1922, davanti a porta Adriana. A causa di una dura vertenza sindacale, seguita all’assegnazione di un contratto di monopolio per i trasporti agricoli al sindacato autonomo fascista, migliaia di lavoratori proclamarono lo sciopero e si radunarono in borgo San Biagio.
I braccianti e gli operai furono subito attaccati dalle guardie regie in assetto da battaglia e dai fascisti ravennati, con i quali le forze di polizia fecero causa comune, che spararono sui manifestanti arrivando persino a lanciare delle bombe a mano nei pressi del circolo repubblicano “Vicoli“. Alla fine il conto della canrneficina fu di una trentina di feriti e di 10 morti.
Tra i fascisti cadde Giovanni Balestrazzi, capo del sindacato autonomo fascista. Tra i manifestati furono uccisi in 9:
- Gino Benzoni;
- Cesare Missiroli
- Ersilio Pasini;
- Ulisse Raggi;
- Dino Silvestroni;
- Guglielmo Tumidei;
- Luigi Giovanni Balestra;
- Ugo Bustacchini;
- Stefano Ricci.
L’ “incendio dell’ignimonia” e la distruzione della Federazione delle Cooperative da parte delle squadracce fasciste di Italo Balbo
Fu proprio in nome del “martire” Balestrazzi che nel tardo pomeriggio la città fu invasa dai fascisti emiliani guidati da Italo Balbo, con gli squadristi che occuparono la Casa del Popolo repubblicana. Triste preludio a quello che sarebbe successo circa 24 ore dopo.
Nella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1922 ebbe luogo quello che venne poi definito “l’incendio dell’ignominia”, ovvero l’assalto delle squadre fasciste capeggiate da Balbo al palazzo Rasponi sede della Federazione, proprio dove oggi si trova la sede della Provincia di Ravenna, in piazza dei Caduti per la libertà. Come scrisse il Popolo d’Italia, quotidiano fondato da Mussolini nel 1914, il palazzo ravennate fu ridotto a “un voluminoso pacco di cartacce“. E con eloquenza, le foto d’epoca di Ulderico David documentano la distruzione perpetrata dagli squadristi.
La sede della Federazione fu anche data alle fiamme. All’interno si trovava anche il presidente Nullo Baldini, personaggio fondamentale per il mondo cooperativo, che fu condotto all’esterno dai fascisti e, con le mani nei capelli, osservò la distruzione del palazzo. Ciò che restò alla fine, fu poco più di un cumulo di macerie.
I fascisti, con quell’atto, avevano raggiunto il loro scopo: smantellare l’organizzazione democratica che poteva interferire nei loro piani. Un piano di oppressione della vita pubblica che proseguirà quasi del tutto indisturbato nel corso del Ventennio della dittatura. Il giorno seguente i sindaci di Ravenna Fortunato Buzzi e di Forlì Giuseppe Gaudenzi incontrarono i capi fascisti per stipulare un “patto di pacificazione” con il quale si riconosceva al Partito nazionale fascista il “pieno diritto di svolgere la propria azione” nelle due province romagnole.
Qualche mese più tardi, l’epilogo di queste azioni violente e criminali, fu la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
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