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1 MAGGIO 1947, LA STRAGE DI PORTELLA DELLE GINESTRE, Francesco e Massimiliano Mancini

A 77 anni dall’eclatante gesto politico di Salvatore Giuliano, restano ancora oscuri i mandanti tra i depistaggi certi

di Massimiliano Mancini

Abstract: Il 1 maggio del 1947 a poca distanza da Palermo, nella zona di Portella delle Ginestre, un gruppo paramilitare di malavitosi guidati da Salvatore Giuliano faceva fuoco su una folla inerme che festeggiava il Primo maggio dopo il fascismo, e chiedeva la riforma agraria per liberare definitivamente la povera gente dal latifondo. Alla prima elezione dell’assemblea regionale siciliana aveva vinto nettamente la sinistra e il bandito Giuliano, dopo la strage, inviava una lettera al presidente americano Herry Truman mettendosi a disposizione nella lotta contro il bolscevismo e chiedendo l’annessione della Sicilia agli Stati Uniti.

e di Francesco Mancini

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Le premesse

La strage di Portella delle Ginestre è avvenuta 77 anni fa, il 1 maggio 1947.

L’Italia si trovava in un periodo di profondo cambiamento, caratterizzato dalla transizione verso la nuova democrazia repubblicana. Questo passaggio, che era stato sancito dal referendum del 2 giugno 1946, portava con sé una serie di tensioni e conflitti. Da un lato c’erano i fascisti che si erano appena riorganizzati nel Movimento Sociale Italiano (MSI), dall’altro c’erano i movimenti di ispirazione marxista che consideravano la rivoluzione incompiuta e cercavano di portare avanti la loro causa.

Lo scenario era complicato anche da interessi internazionali. Gli interessi dei paesi stranieri avevano un ruolo determinante nella scena politica italiana. Da un lato c’era l’Unione Sovietica che, sostenendo il Partito Comunista Italiano, cercava di influenzare il corso degli eventi a proprio vantaggio, dall’altro lato, c’erano gli Stati Uniti, che volevano impedire l’ascesa della sinistra, allora in forte ascesa al governo italiano[1[2][3].

Il contesto storico

Nel 1947, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori il Primo maggio, che sotto il regime fascista era stata spostata al 21 aprile, ossia al Natale di Roma.

Circa duemila lavoratori, molti dei quali agricoltori, si erano riuniti a Portella della Ginestra, una località montana del comune di Piana degli Albanesi a pochi km da Palermo, per manifestare contro il latifondismo e festeggiare la recente vittoria del Blocco del Popolo, l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti alle elezioni dell’assemblea regionale siciliana, svoltasi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI-PCI aveva conquistato 29 rappresentanti su 90 (con il 32% circa dei voti) contro i 21 della DC (crollata al 20% circa).

La località fu scelta perché alcuni decenni prima vi aveva tenuto alcuni discorsi Nicola Barbato, una delle figure simbolo del socialismo siciliano. In quel periodo le condizioni di vita del popolo erano molto misere e, come poi raccontato da alcuni sopravvissuti alla strage, molti avevano aderito alla manifestazione anche nella speranza di mangiare qualcosa.

La manifestazione era incentrata sulla sperata riforma agraria ed era stata preceduta nell’ottobre del 1944 dall’occupazione delle terre incolte che venne legalizzata dal Ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo. Con tale misura si cercava di sopperire alla povertà diffusa, consentendo l’occupazione dei terreni non utilizzati con una diversa ripartizione dei raccolti che favoriva maggiormente gli agricoltori rispetto ai proprietari. La diversa percentuale di ripartizione, contrastante con le consuetudini locali del tempo, fu vista come motivo di potenziale rivolgimento sociale che avrebbe alterato gli equilibri politici della regione gestiti anche dalla mafia[4].

Il valore politico

La dimostrazione di massa presso Portella della Ginestra si trasformò in un evento epocale, un vero e proprio fiume umano che si riversò nelle strade della vallata. Era un grido di liberazione dalla miseria e dall’oppressione, una richiesta di una riforma agraria radicale che portasse a una distribuzione più equa delle risorse e delle opportunità contro i grandi proprietari terrieri, sino ad allora protetti dal fascismo. Mussolini infatti quando era direttore dell’Avanti si era schierato per la riforma agraria, ma salito al potere non la realizzò mai proteggendo i proprietari terrieri e gli industriali che lo avevano finanziato e supportato per la marcia su Roma.

La strage

Gli autori della strage si erano organizzati già dal giorno prima, non appena Salvatore Giuliano aveva ricevuto una misteriosa lettera, da lui subito bruciata.

Erano appena scoccate le 10 quando iniziò a parlare dal palco del comizio un calzolaio che sostituiva il deputato del Pci Girolamo Li Causi: all’improvviso echeggiarono i primi spari. Inizialmente vennero scambiati per dei mortaretti. Quando però le persone cominciarono a cadere insanguinate, tutti compresero la vera natura degli scoppi. I più anziani si gettarono a terra, ma furono soprattutto i giovani, meno esperti, a cadere sotto le raffiche. La pressoché totale assenza di ripari esponeva i lavoratori e le loro famiglie alla decimazione. In circa un quarto d’ora tutto fu compiuto.

I colpi dei mitra dei criminali fecero subito 11 morti, tra i quali 6 giovanissimi, e ferirono gravemente oltre 30 persone delle quali 6 morte in seguito. I banditi fuggirono facendosi largo con altre uccisioni.

Per circa un mese, seguirono attentati con mitra e bombe a mano diretti alle sedi del Pci di Monreale, Carini, Cinisi, Terrasini, Borgetto, Partinico, San Giuseppe Jato e San Cipirello. Ogni azione recava la firma di Giuliano che, in appositi volantini, sobillava la popolazione alla ribellione verso il comunismo avanzante.

Nello stesso tempo Salvatore Giuliano si raccomandava al presidente americano Truman, assicurando la sua azione per il contrasto del bolscevismo e aspirando all’annessione della Sicilia agli Stati Uniti.[5]

Le indagini

In seguito alle indagini furono rastrellate in un primo momento 175 persone, poi rilasciate, e denunciati come esecutori materiali, perché riconosciuti da testimoni, quattro mafiosi quattro mafiosi di San Giuseppe Jato: Giuseppe Troia, Salvatore Romano, Elia Marino e Pietro Grigoli, riconosciuti da alcuni testimoni oculari ma poi prosciolti in istruttoria.

A fine giugno del 1947 ci fu un’apparente svolta, i cacciatori sequestrati dai banditi prima dell’assalto riconobbero Salvatore Giuliano, Salvatore Ferreri (detto “Fra’ Diavolo”) e i frateelli Salvatore e Fedele Pianelli (in seguito uccisi in un conflitto a fuoco ad Alcamo). Da questi venne la confessione agli inquirenti di un altro partecipante al blitz, Francesco Gaglio detto Reversino, che fu arrestato dopo la confessione. Furono arrestati anche altri presunti corresponsabili ma, alla fine, furono tutti scagionati. Quanto al celebre bandito Salvatore Giuliano, questi non fece in tempo a conoscere la sentenza del suo processo, emessa nel 1955, ben 5 anni dopo la sua uccisione avvenuta in carcere per mano di un altro detenuto, Gaspare Pisciotta, anch’egli accusato e poi condannato per la strage. Nella sentenza fu dichiarata la responsabilità del un gruppo paramilitare di estrema destra guidato da Salvatore Giuliano, ma a tutt’oggi non è certo chi fossero i veri mandanti, tra mille depistaggi e interessi di potenze straniere che dallo sbarco alleato in Sicilia alla crisi di Sigonella influenzano ancora oggi la politica dell’Italia.

In un primo momento, Giuliano negò ogni suo coinvolgimento nella strage per poi ammetterlo nel corso di un’intervista resa al giornalista Jacopo Rizza e in due memoriali che sarebbero stati scritti di suo pugno ed inviati alla magistratura nel 1950, poco prima della sua morte.[6]

Il processo

Il procedimento giudiziario iniziò nel 1950 a Palermo, contraddistinto da depistaggi e pressioni[7], e poi fu spostato a Viterbo per legittima suspicione, e fu uno dei primi procesi mediatici, al centro dell’attenzione della stampa nazionale e dell’opinione pubblica.

Giuliano inviò ai giudici ben due memoriali, il primo in cui si assumeva tutta la responsabilità della strage, affermando che le vittime e i feriti fossero soltanto il frutto di un errore dei suoi uomini che sbagliarono mira, e il secondo in cui scagionava il ministro Mario Scelba dall’accusa di essere il mandante, nonché furono rese pubbliche diverse lettere di un carteggio intercorso tra il bandito e il deputato comunista Girolamo Li Causi, in cui al contrario emergevano velate accuse nei confronti dello stesso Scelba.

La sentenza arrivò nel 1955 accertando la responsabilità di un gruppo paramilitare di estrema destra guidato da Salvatore Giuliano, che però era già morto avvelenato in carcere da Gaspare Pisciotta, alcuni banditi rimasero impuniti, mentre altri scontarono il carcere, ma a tutt’oggi non si è accertato chi furono i mandanti, tra mille depistaggi e interessi di potenze straniere che dallo sbarco alleato in Sicilia alla crisi di Sigonella sino a tutt’oggi influenzano la politica dell’Italia.[8]

Note


[1] Sandro Provvisionato, Misteri d’Italia, Bari, Laterza, 1994.

[2] Carlo Ruta, Il binomio Giuliano-Scelba, Soveria Mannelli, Rubbettino, Rubbettino, 1995.

[3] Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Milano, Bompiani, 2005.

[4] Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani. 1943-1953, Milano, Mondadori, 1986.

[5] Francesco Petrotta, Salvatore Giuliano, uomo d’onore. Nuove ipotesi sulla strage di Portella della Ginestra, presentazione di Pino Arlacchi, prefazione di Enzo Campo, Palermo, La Zisa, 2018.

[6] Carlo Ruta, Giuliano e lo Stato. Documenti sul primo intrigo della Repubblica. Edi.bi.si., Messina, 2004

[7] Francesco Petrotta, La strage e i depistaggi. Il castello d’ombre su Portella della Ginestra, Roma, Ediesse, 2007.

[8] Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, introduzione di Nicola Tranfaglia, Milano, Bompiani, 2005.


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