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NOTIZIE Roberto Castellucci

UNA COMUNITÀ IN VIAGGIO TRA TRADIZIONE E DIALOGO, Roberto Castellucci

Intervista a Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Roberto Castellucci

Abstract: “Nulla di politico”: questo è il convenuto fil rouge che lega le risposte dell’intervista gentilmente concessa dal rav. Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma a Roberto Castellucci. Ma, a ben cercare, tra le righe…

Fabio Ghia

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Riccardo Shemuel Di Segni

Riccardo Di Segni

nato a Roma il 13 novembre 1949, figlio del medico e partigiano Mosè Di Segni, medico specialista, è stato direttore di dipartimento di diagnostica per immagini all’ospedale San Giovanni di Roma e rabbino italiano, dal 2001 rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, la cattedra rabbinica più importante in Italia. Membro del Consiglio direttivo dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia dal 1999 al 2007 e Vice presidente della Conferenza Rabbinica Europea, dal 2010. Direttore del Collegio Rabbinico Italiano, dal 1999.


Accompagnato cortesemente da Fabio Ghia, sono nella Sinagoga più antica di Roma, in Lungotevere De’ Cenci, per un’intervista gentilmente concessa da Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma. L’emozione, confesso, è tanta perché percorrendo i corridoi interni dell’edificio si respira un’aria molto intensa, densa di religiosità, di sofferenza, di storia e di cultura. Una grande scrivania in legno scuro occupa buona parte del suo studio. I muri, bianchissimi, offrono rilievo a preziosi e antichi tessuti, pergamene e manoscritti, simboli importanti della religione e della carica spirituale della persona che sto per intervistare. Non è solo il più alto rappresentante della Comunità ebraica romana, Riccardo Di Segni è anche medico, già dirigente in un importante ospedale romano, scrittore, articolista e ha persino recitato in un film. La versatilità culturale e la spiritualità rappresentata gli conferiscono, insieme a un fisico asciutto e longilineo, un’aura molto autorevole e ascetica, anche per me che confesso una diversa religione. Dopo un sorriso accogliente che rompe la formalità del primo saluto, ci invita ad accomodarci sulle poltrone davanti alla scrivania e a cominciare l’intervista, non prima di averci ricordato che risponderà come capo religioso della Comunità ebraica romana e non come politico. In realtà le sue risposte, ineccepibilmente conformi alla sua funzione di rav (maestro, in ebraico), saranno accompagnate da una comunicazione non verbale rivelatrice di qualche spunto critico che, ovviamente, resterà segreto nell’alveo del soggettivismo giornalistico e oggettivamente deontologico. Purtroppo.

Quali sono le attività di un capo rabbino?

«Innanzitutto ha funzioni dirigenziali per tutto ciò che riguarda l’organizzazione religiosa della Comunità ebraica. Quest’ultima deve offrire dei servizi religiosi che coprono tutti i momenti della vita dei membri: le funzioni sinagogali, l’educazione formale e informale ai testi sacri della tradizione e la cura dell’alimentazione secondo le regole ebraiche. In tutti questi compiti il capo rabbino interviene come guida spirituale, dando determinati indirizzi, fissando “paletti” se necessario rispetto a scelte che potrebbero essere discutibili rispetto alle regole religiose e rappresentando la religione ebraica all’esterno della Comunità attraverso il dialogo».

La sua attività è circoscritta a Roma?

«Nell’organizzazione delle Comunità ebraiche italiane ogni Comunità locale ha il suo rabbino. Poi, a seconda dell’autorevolezza riconosciuta al rabbino capo, la sua influenza si può estendere oltre i limiti territoriali previsti».

Quali sono i problemi incontrati all’inizio del suo mandato?

«Sono i problemi di qualsiasi Comunità ebraica, per prima cosa occorre assicurare la continuità nella tradizione, cercando di spiegare ai membri della nostra Comunità quanto sia importante trasmettere il patrimonio ricevuto, e poi garantire l’efficienza dei servizi, garantendo il soddisfacimento delle richieste dei singoli membri, pur incontrando limiti come in ogni attività umana. Esistono, poi, tanti modi identitari di vivere l’ebraismo e il ruolo interpretativo di un rabbino in una Comunità che è immersa nel mondo occidentale è sempre difficile da esercitare».

C’è un dialogo all’interno della Comunità?

«L’idea che l’ebraismo sia un blocco monolitico è assolutamente infondata, ovunque ci siano degli ebrei c’è una perenne discussione, virtuosa o accesa nei modi e nella sostanza. La nostra Comunità è divisa su tutto, sui temi dell’osservanza religiosa come sulle simpatie politiche… Sicuramente la litigiosità spesso ci distingue! È compito del rabbino ricondurre il dibattito a una discussione civile e cercare la condivisione sui valori importanti».

Ci sono problemi della Comunità romana “verso” l’esterno?

«Dipende da tanti fattori, sia dai temi che dalla contingenza del momento. Tutte le Comunità ebraiche, poi, sono integrate e integrali nel territorio e siccome noi siamo i più antichi romani di Roma… Per quanto riguarda i problemi con l’esterno, questi possono essere di tipo “sereno” o meno, e poi dipende anche dalle persone, dalle istituzioni e dalle autorità con le quali ci rapportiamo. Se c’è ostilità nei nostri confronti, come nel momento attuale in cui una parte dell’opinione pubblica ci guarda con molta severità, sicuramente qualche difficoltà la incontriamo».

…riferendoci alle ultime manifestazioni pro Palestina, per esempio? Si può parlare di antisemitismo?

«I confini sono molto sottili. Se qualcuno critica la politica di un determinato governo fa il suo dovere di cittadino, e quindi (criticando per esempio l’esecutivo di Israele, ndr) non può essere antisemita. Ma, in questo caso, c’è una mescolanza molto equivoca perché nel momento in cui i manifestanti usano lo slogan “from the river to the sea” non sapendo neppure quale mare e fiume evochino, auspicano la distruzione dello Stato di Israele. Sarà uno slogan antiisraeliano, allora? Tenga conto che in Israele vive quasi metà del popolo ebraico del mondo e negare il diritto all’esistenza di Israele significa negare il diritto al popolo ebraico all’autodeterminazione, alla difesa e, in definitiva, alla vita. Negare ciò e ignorare tutto ciò che succede assai più drammaticamente nelle altre parti del mondo comporta uno strabismo e una cecità politica che possono essere identificati come antisemitismo. È anche vero che da qualche anno dichiararsi antisemiti non è più un tabù…».

Quali sono i rapporti tra la sua Comunità e lo Stato di Israele?

«Gli ebrei romani vedono nello Stato di Israele la realizzazione di un sogno storico, di un popolo che si organizza e si governa. Molti ebrei romani hanno parenti in Israele e c’è un continuo scambio, culturale e fisico. Certo, nell’ambito della Comunità ci saranno supporter del governo israeliano oppure critici spietati… Quindi occorre sempre tener presente la differenza tra governo e Stato ma, questo, è un principio valido per ogni nazione del mondo. Israele è anche una specie di assicurazione sulla vita per ogni ebreo, in considerazione di quanto succede oggi ma, anche e soprattutto, di quanto successo 80 anni fa…».

Quali sono i rapporti con lo Stato del Vaticano?

«Se guardiamo nel Dopoguerra, i rapporti con il mondo cristiano, e con quello cattolico in particolare, hanno avuto un’evoluzione positiva nella volontà di stabilire un reciproco rispetto, pur essendoci dietro ostilità millenarie. È un cammino complesso nel quale si incontrano difficoltà che, comunque, il clima cambiato aiuta a risolvere. Inoltre, anche il mondo cattolico non è un blocco monolitico e ci sono differenze di vedute tra i fedeli e nel clero. Quindi con qualcuno abbiamo ottimi rapporti, di comprensione e scambi culturali, con altri meno, anche per il periodo che stiamo attraversando».

Quali sono i suoi obiettivi esterni alla Comunità?

«I miei obiettivi sono focalizzati sulla vita comunitaria, principalmente. Comunque, per rispondere alla sua domanda, occorre consolidare e promuovere rapporti d’amicizia con tutti i mondi, religiosi e laici, e far rispettare la nostra realtà, anche per quanto rappresenta per la storia italiana. Noi siamo profondamente radicati in quest’ultima, e ne siamo anche un “pezzo” prezioso, essendo colorati in maniera differente. Questa “diversità” porta ricchezza nella società italiana».

Raramente assisto, nel dibattito pubblico quotidiano, a una comunicazione aperta da parte della Comunità ebraica: è così? Non pensa che diffondere maggiormente le vostre istanze possa contribuire ad aumentare la vicinanza della Comunità con il mondo non ebraico?

«Noi viviamo in un momento in cui, come mai successo in passato, la comunicazione è manipolata. Ci sono delle linee direttive che impongono dei filtri strategici sulle notizie e sulle opinioni. Noto dello scetticismo nel suo sguardo ma se lei indossasse per un attimo le lenti dello spettatore ebreo e assistesse ai talk show in televisione di questi giorni o, anche, a qualsiasi conversazione sui social, noterebbe di come le scelte dei moderatori siano indirizzate in un certo modo, dando la parola preferibilmente a determinate persone e per un tempo maggiore rispetto ad altri. Non c’è reale contraddittorio, gli spazi concessi alla Comunità ebraica sono estremamente ridotti, la titolistica dei giornali è deviata – potrei portarle tante prove di questo – e, sinceramente, la comunicazione risulta “avvelenata”».

Non pensa che esponendosi di più in prima persona, potrebbe contribuire a ridurre la manipolazione della comunicazione?

«Bisogna valutare quanto sia opportuno esporsi e, soprattutto, se ti consentono di esporti…».

Pensa che dietro questa difficoltà nella comunicazione della sua Comunità e del mondo ebraico in generale ci sia una regia?

«Penso che ci siano tante cabine di regia che vadano all’unisono, pur senza un loro coordinamento».

Perché, a tal proposito, le estremità politiche italiane concordano nel criminalizzare il mondo ebraico, in relazione alla guerra in Palestina?

«Lo sa che Mussolini era socialista? Il tema della Palestina, al netto della solidarietà umana, è diventato una bandiera da sostenere a ogni costo e a ogni circostanza… C’è un investimento di risorse, dietro questa faccenda. Ci sono dietro professionisti particolarmente abili, governi, aziende… Spostare l’attenzione sulla Palestina anziché su altri problemi mondiali è un gioco…».

Con questa affermazione dilemmatica, ma non troppo a parere dello scrivente, si conclude un’esperienza che ci ha permesso di curiosare un po’ da vicino, anche questo non troppo, nel mondo ebraico, un concentrato di tradizione, religione e cultura che merita di essere conosciuto più approfonditamente. A prescindere…».

La grande sinagoga di Roma [foto (c) Massimiliano Mancini]

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