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LE ORIGINI DELL’ODIO RAZZIALE E RELIGIOSO VERSO GLI EBREI, Jacopo Reale

Antigiudaismo e antisemitismo-Parte 1

Abstract: Un’esposizione sulla storia della cultura religiosa e politica europea, che sviluppa il tema della percezione dell’ebraismo e della presenza ebraica. In prospettiva didattica, l’analisi dei testi e dei materiali mira a fornire un’interpretazione contemporanea sull’eziologia dell’odio religioso e razziale. Jacopo Reale ha sviluppato questo intervento in occasione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio 2023, quando si è tenuto il Convegno Odio razziale e terrorismo religioso, organizzato da UPLI-Unione Polizia Locale Italiana e dalla nostra rivista, presso l’ateneo di Roma Tre. La pubblicazione di questi approfondimenti si è scelto di iniziarla nell’80° anniversario della tragica deportazione degli ebrei romani del 16 ottore 1943.

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Jacopo Reale

Jacopo Reale, laureato con lode in Storia della civiltà cristiana presso l’Università europea di Roma, dottorando in Storia e borsista presso Università di Roma Tor Vergata, borsista per gli studi giudaico-cristiani presso la Pontificia Università Gregoriana dove ha conseguito anche il master in 1° e 2° livello in “Ebraismo e relazioni ebraico-cristiane”, conoscitore del greco, latino, inglese, francese ed ebraico moderno.


FAKE NEWS STORICHE: SIMONINO DA TRENTO

IL CRISTIANESIMO COME CORRENTE DEL GIUDAISMO

L’ACCUSA DI DEICIDIO COME BASE DELL’ANTIGIUDAISMO CRISTIANO


Le origini del mito antiebraico nel mondo greco

Antiokhos IV (Antioco Epifane), Altes Museum di Berlino

Una delle prime forme di propaganda antigiudaica è riconducibile alle vicende di Antioco IV Epifane (215-164 aev). Egli fu sovrano del regno seleucide, un dominio sconfinato e corrispondente, grossomodo, all’area delle attuali Siria, Turchia, Iraq, Iran e Afghanistan, il prodotto diretto della frammentazione dell’impero di Alessandro magno in diversi regni che la storiografia ha definito «ellenistici»[1]. L’avversione di Antioco IV verso gli ebrei ha un’origine complessa. Il regno dei Seleucidi era assai esteso sul piano territoriale e molto eterogeno, dal punto di vista culturale; i confini orientali erano stati spesso resi instabili dalle sommosse delle popolazioni locali, che avevano richiesto notevole impegno da parte dei sovrani per assicurare l’unità del regno. Tale impegno si era storicamente concretizzato in un’intensa attività coloniale in cui le città greche svolgevano un ruolo cruciale, che prevedeva non solo il controllo delle vie commerciali e delle posizioni strategiche, ma anche – e soprattutto – la diffusione dello stile di vita ellenista[2].

La reazione ebraica all’influsso della cultura greca indotto dai regni ellenistici, in particolare quello seleucide, spaziò da sincretismo e assimilazione sino a rifiuto e opposizione. Inizialmente, il Giudaismo si era aperto alla cultura ellenistica, prendendovi effettivamente parte, soprattutto sotto il profilo materiale, linguistico e culturale. Solo un aspetto della cultura greca era inaccettabile per gli ebrei più rigorosi: il culto degli dèi e l’osservanza di pratiche religiose greche[3]. Per il resto, è apparso chiaro agli studiosi che tutti gli ebrei dell’antichità fossero ellenizzati, anche quelli di lingua aramaica che vivevano in Terra di Israele, perché tutti condividevano la cultura materiale del mondo circostante ed erano esposti al predominio dell’idioma greco e agli strumenti mentali dell’Ellenismo[4].

Per la maggior parte degli ebrei, la soluzione ideale tra conservazione e innovazione era consistita in una sintesi tra contenuti giudaici e forme ellenistiche: ciò non presupponeva l’importazione di materiali e idee esterne al Giudaismo ma, più semplicemente, un do ut des. Come gruppo partecipe della cultura ellenistica, gli ebrei diedero e ricevettero in cambio[5]. Il nuovo ethos del Giudaismo si traduceva specialmente nella propagazione di generi letterari greci, come il commento, che si diffusero anche in ambienti conservativi come quello di Qumran e nei circoli rabbinici. Tutte queste opere erano rigorosamente fedeli alla tradizione giudaica, ma ciascuna di esse era, al contempo, espressione del gusto letterario greco[6].

L’ellenizzazione degli ebrei e la rivolta dei Maccabei

In questo contesto, si inserisce la politica estera di Antioco IV che, subentrato nel 175 aev a Seleuco IV, suo fratello, si era impegnato nella sesta guerra di Siria; dopo aver invaso l’Egitto, nel 168, si vide imporre da un ambasciatore della repubblica romana, Marco Popilio Lenate, l’abbandono immediato del paese[7], a seguito del quale decise di volgersi a Oriente per occuparsi della sicurezza dei confini e della coesione interna del regno. Tra i vari elementi di tensione interna vi era, infatti, il «problema giudaico», un conflitto originato, a partire dal 175, all’interno del Giudaismo stesso, tra conservatori – capeggiati dal sommo sacerdote Onias – ed ebrei ellenizzanti estremisti, appoggiati da Antioco IV.

Il problema non era l’Ellenismo in quanto cultura, ma l’effettiva distinzione con cui i singoli ebrei avevano deciso di reagire al suo influsso: alcuni, spinti dal desiderio di partecipare pienamente ai piaceri della civiltà ellenistica, ritenevano troppo gravose le leggi che impedivano rapporti sociali tra ebrei e gentili, altri, invece, avevano accettato appieno le verità della filosofia greca. Tra questi vi erano anche coloro che avevano tentato di eliminare le caratteristiche distintive del Giudaismo al fine di renderlo indistinguibile dalle altre forme di politeismo semitico-ellenistico[8]. Ciò faceva chiaramente gioco alla politica di Antioco IV, che nel 167 aev emanò un decreto regio con il quale pretese di imporre agli ebrei l’abbandono della Legge e del culto mosaico, causando la rivolta nazionale e religiosa degli ebrei, guidata dai Maccabei, le cui vicende sono note grazie ai resoconti di Flavio Giuseppe e dei libri dei Maccabei (scritti in greco), il primo dei quali risale forse proprio all’epoca dei fatti raccontati. Com’è noto, nel 164 aev Gerusalemme fu riconquistata dai Maccabei e il Tempio fu riconsacrato, dopo la profanazione di Antioco[9].

Nel 163 fu, quindi, garantita nuovamente libertà di culto agli ebrei, ma l’anno seguente Demetrio I riprendeva il conflitto: allora Giuda, capo dei Maccabei, si rivolse a Roma, ottenendo un trattato di alleanza e un intervento diplomatico che produsse, attraverso varie fasi, la costituzione di uno stato giudaico indipendente[10].

Antioco IV è stato il grande sconfitto della rivolta, a seguito della quale maturò una profonda ed aspra inimicizia tra ebrei e non ebrei in molti dei territori interessati dall’intervento dei Maccabei: all’ammirazione meravigliata per il Dio di Israele subentrò, sempre più spesso, il disprezzo della pratica religiosa ebraica e il rimprovero di ostilità verso il genere umano, stereotipi che, una volta divenuti letteratura ebbero, come conseguenza, una storia degli effetti che, più tardi, funse da motivazione continua per gli intenti antigiudaici del momento [11]

Louis Jean François Lagrenée (1725–1805), Popilio inviato come ambasciatore ad Antioco Epifane per fermare il corso delle sue devastazioni in Egitto (1779)

La propaganda antigiudaica e l’accusa del sangue

Tra le forme di propaganda antigiudaica sviluppatesi all’indomani della rivolta maccabaica, annoveriamo quella di un certo Apione (20 aev – 45ev), sofista e grammatico greco nativo di Alessandria d’Egitto. Pur non essendoci pervenute le sue opere, i contenuti delle stesse sono noti grazie alla confutazione di Giuseppe Flavio nel Contra Apionem, l’unica opera ebraica antica esistente presentata esplicitamente come apologia del Giudaismo e come importante fonte di prova dell’antico antigiudaismo[12]. Quanto scritto da Apione è di primaria importanza per comprendere la genesi e le categorie intellettuali proprie della narrativa antiebraica: è in questa fase storica che nascono alcuni stereotipi che si riveleranno duraturi e che influenzeranno fortemente anche la cultura cristiana, come l’accusa del sangue, o di omicidio rituale. Apione, infatti, aveva accusato gli ebrei di praticare il sacrificio di giovani greci e di complottare contro l’ordine costituito.

«[Apione] aggiunge un'altra favola greca, per rimproverarci. In risposta a ciò, basterebbe dire che coloro che osano parlare del culto divino non devono ignorare questa semplice verità, che è un grado di minore impurità passare per i templi, piuttosto che fabbricare malvagie calunnie sui suoi sacerdoti. Ora uomini come lui sono più zelanti nel giustificare un re sacrilego, piuttosto che scrivere ciò che è giusto e ciò che è vero su di noi e sul nostro Tempio; perché quando vogliono gratificare Antioco e nascondere quella perfidia e sacrilegio di cui si è reso colpevole nei confronti della nostra nazione, quando ha bisogno di denaro, si sforzano di disonorarci e dicono bugie anche riguardo al futuro. Apione diventa il profeta di altri uomini in questa occasione e dice che “Antioco [IV] trovò nel Tempio un letto e un uomo sdraiato su di esso, con un tavolino davanti a lui, pieno di leccornie, dai [pesci del] mare, e gli uccelli della terraferma; che quest'uomo rimase sbalordito da queste prelibatezze così messe davanti a lui; che subito adorò il re, al suo ingresso, sperando che gli avrebbe prestato tutta l'assistenza possibile; che cadde in ginocchio, e stese verso di lui la mano destra, e lo pregò di essere rilasciato; e che quando il re lo invitò a sedersi, e gli disse chi era, e perché abitava lì, e qual era il significato di quei vari tipi di cibo che gli fu posto davanti, l'uomo fece un lamento lamentoso, e con sospiri e lacrime negli occhi, gli fece questo resoconto dell'angoscia in cui si trovava; e disse che era un greco e che mentre attraversava questa provincia, per guadagnarsi da vivere, fu catturato da stranieri, all'improvviso, e portato in questo Tempio, e chiuso lassù, non fu visto da nessuno, ma fu ingrassato da queste curiose provviste così messe davanti a lui; e che se dapprima tali vantaggi inaspettati gli parvero motivo di grande gioia; dopo un po' gli portarono un sospetto, e alla fine stupore, su quale dovesse essere il loro significato; che alla fine chiese ai servi che andarono da lui e fu da loro informato che era per l'adempimento di una legge degli ebrei, che non dovevano dirgli, che era così nutrito; e che facevano lo stesso ogni anno a una certa ora: che erano soliti catturare uno straniero greco, e ingrassarlo così ogni anno, e poi portarlo in un certo bosco, e ucciderlo, e sacrificare con le loro solite solennità, e assaggiare le sue viscere, e giurare su questo sacrificio, che mai sarebbero stati in amicizia con i greci; e che poi hanno gettato le restanti parti del miserabile in una certa fossa. Il rispetto che portava agli déi greci avrebbe deluso le insidie che gli ebrei avevano teso al suo sangue e lo avrebbe liberato dalle miserie di cui era circondato”».

Giuseppe offre una completa e non negabile confutazione, che delegittima del tutto le fantasticherie del rivale.

«[…] Ma [quanto ad Apione], ha fatto tutto ciò che il suo stravagante amore per la menzogna gli ha dettato, come è molto facile scoprire da una considerazione dei suoi scritti; poiché si sa che la differenza delle nostre leggi non riguarda solo i Greci, ma sono principalmente opposte agli Egiziani, e anche ad alcune altre nazioni inoltre, mentre accade che uomini di tutti i paesi vengano a volte a soggiornare in mezzo a noi, come mai prestiamo giuramento e cospiriamo solo contro i Greci, e attraverso lo spargimento del loro sangue? O come è possibile che tutti gli ebrei si uniscano a questi sacrifici e che le viscere di un uomo siano sufficienti per farne assaggiare a tante migliaia, come pretende Apione? O perché il re non riportò quest'uomo, chiunque fosse, e qualunque fosse il suo nome (che non è riportato nel libro di Apione) con grande pompa nel suo paese? Quando in tal modo avrebbe potuto essere stimato lui stesso come persona religiosa e potente amante dei greci, e avrebbe potuto così procurarsi grande aiuto da tutti gli uomini contro quell'odio che gli ebrei gli portavano. Ma lascio questa faccenda; poiché il modo corretto di confutare gli stolti non è usare parole nude, ma fare appello alle cose stesse fatte contro di loro. Ora, quindi, tutti coloro che hanno mai visto la costruzione del nostro Tempio, di quale natura fosse, sanno abbastanza bene come la sua purezza non doveva mai essere profanata; poiché aveva quattro diversi cortili circondati da chiostri tutt'intorno, ognuno dei quali aveva secondo la nostra legge un grado particolare di separazione dal resto. Nella prima corte era permesso a tutti di entrare, anche agli stranieri, e solo alle donne, durante i loro corsi, era proibito di attraversarlo; tutti gli ebrei entravano nel secondo cortile, così come le loro mogli, quando furono liberi da ogni impurità; nel terzo cortile entravano gli uomini ebrei, quando erano netti e purificati; nella quarta entravano i sacerdoti, indossando le loro vesti sacerdotali; ma per il luogo santissimo non entravano che i sommi sacerdoti, vestiti delle loro vesti peculiari. Ora c'è tanta cautela usata riguardo a questi uffici di religione, che i sacerdoti sono nominati per entrare nel Tempio, ma a certe ore; poiché al mattino, all'apertura del Tempio interno, coloro che devono officiare ricevono i sacrifici, come fanno di nuovo a mezzogiorno, finché le porte non sono chiuse. Infine, non è lecito portare alcun vaso nella santa casa; né c'è nulla in essa, solo l'altare [dell'incenso], la tavola [del pane della presentazione], l'incensiere e il candelabro, che sono tutti scritti nella legge; poiché non c'è altro lì, né ci sono misteri compiuti di cui non si possa parlare; né vi è alcuna festa all'interno del luogo. Poiché ciò che ho ora detto è pubblicamente noto e supportato dalla testimonianza di tutto il popolo, e le loro operazioni sono molto manifeste; poiché sebbene ci siano quattro classi di sacerdoti e ognuna di esse abbia più di cinquemila uomini, tuttavia officiano solo in determinati giorni; e quando quei giorni sono trascorsi, altri sacerdoti hanno successo nell'esecuzione dei loro sacrifici, e si riuniscono insieme a mezzogiorno, e ricevono le chiavi del Tempio e gli utensili per racconto, senza che nulla riguardi cibo o bevanda sia portato in il Tempio; anzi, non ci è permesso offrire tali cose all'altare, eccetto ciò che è preparato per i sacrifici. Che cosa possiamo dire dunque di Apione, se non che non esaminò nulla che riguardasse queste cose, pur pronunciando parole incredibili su di esse? È una grande vergogna per un grammatico non poter scrivere la storia vera. Ora, se conosceva la purezza del nostro Tempio, ha completamente omesso di prenderne atto; ma inventa una storia sulla cattura di un greco, sul cibo ineffabile e sulla più deliziosa preparazione di prelibatezze; e finge che gli estranei possano entrare in un luogo in cui non è permesso entrare agli uomini più nobili tra i Giudei, a meno che non siano sacerdoti. Questo, quindi, è il massimo grado di empietà e una menzogna volontaria, al fine di ingannare coloro che non vogliono esaminare la verità delle cose; mentre tali indicibili mali come quelli sopra riferiti sono stati causati da tali calunnie che ci vengono sollevate»[13].

Lo stereotipo dell’omicidio rituale

Lo stereotipo antigiudaico dell’omicidio rituale, per quanto apparentemente precoce, ritrae già il classico modus operandi della propaganda: ovvero presentare una distorsione dell’informazione, tramite un atto deliberato, volto a generare un’imputazione coscientemente falsa, al fine di menomare la reputazione altrui. È utile analizzare gli elementi fondamentali della menzogna di Apione, perché essi sono la formula della fortuna che questo mito, tanto duraturo quanto folkloristico, ha avuto a discapito degli ebrei nei secoli successivi. Tale formula consiste nella somma dei seguenti elementi: rapimento di un giovane, omicidio rituale, oscenità (cannibalismo), giuramento di perpetua ostilità attraverso lo spargimento del sangue della vittima e, infine, intrigo o complotto ai danni dei greci e delle istituzioni non ebraiche. Sono questi gli «strumenti mentali», di lunga durata, che hanno costituito la fortuna dell’antigiudaismo e, in seguito, dell’antisemitismo[14].

Anche molti intellettuali e scrittori latini contribuirono a divulgare inesattezze e menzogne sul Giudaismo e gli ebrei. Ad esempio, Seneca, Orazio e Marziale si dichiaravano contrari al riposo sabatico definendolo una superstizione[15], Giovenale ironizzava sul fatto che gli ebrei adorassero le nuvole e il nume del cielo[16], Orazio, Catullo, Ovidio, Persio, Plinio il Vecchio e Marziale deridevano i rituali ebraici, rammaricandosi della diffusa accoglienza che ebbero, a Roma, alcune delle pratiche giudaiche[17]. Questo sentimento denigratorio si basava su luoghi comuni, alcuni dei quali prendevano di mira la circoncisione, percepita come un difetto estetico, o l’astensione dalla carne suina[18]: anche la mattanza rituale della carne era considerata alla stregua di una superstizione[19].

Tra i commenti sarcastici sugli ebrei, considerati un ammasso barbarico di mendicanti, poveracci ciarlatani e bottegai[20], il resoconto più interessante sulla cultura giudaica è quello di Tacito, il quale nel dedicare un capitolo alle origini degli ebrei, dimostra di essere molto recettivo verso le menzogne di Apione; infatti, egli afferma che gli ebrei sono estremamente lussuriosi, che nel Tempio adorano l’immagine di un asino[21], che usano il pane azzimo in ricordo del grano rubato in Egitto[22]. Nel ricostruire gli eventi della rivolta giudaica scoppiata sotto Antioco IV, lo storico attribuisce al sovrano seleucide l’intenzione di far progredire «la triste genia» degli ebrei «cambiandoli in meglio», abolendo il loro fanatismo e trasmettendo loro i costumi greci. La conclusione a cui arriva Tacito è sorprendente e merita un’attenta riflessione – considerata anche la fortuna e l’influenza di questo autore nella formazione del pensiero pangermanista[23] – in quanto costui arriva ad affermare che tutto ciò che era considerato sacro dai romani era invece dichiarato profano dagli ebrei, e viceversa[24].

L’omicidio rituale di Simonino da Trento in una xilografia di area germanica

Note:

[1] Sia Alessandro che i sovrani che gli succedettero crearono nuove élites, unite non solo dall’obbedienza al sovrano, ma anche dalla comune adesione alla lingua e alla cultura ellenica. I sovrani incoraggiavano le élites autoctone ad ambire al potere politico tramite l’adozione della cultura dominante. Sull’argomento cf. C. BEARZOT, I greci e gli altri. Convivenza e integrazione, Roma 2012, in part. pp. 139-152.

[2] C. BEARZOT, Manuale di storia greca, Bologna 2011, pp. 253-55.

[3] 2Mac 2,21; 4,13.

[4] F. CALABI, Storia del pensiero giudaico ellenistico, Brescia 2010; SHAYE J.D. COHEN, Dai Maccabei alla Mishnah, Torino 2020, pp. 24-25; V. COLORNI, L’uso del greco nella liturgia del giudaismo ellenistico e la novella 146 di Giustiniano, in «Annali di Storia del Diritto», (8), Milano 1964; W. D. DAVIES, L. FINKELSTEIN, The Cambridge History of Judaism, I: Introduction; The Persian Period; II: The Hellenistic Age, Cambridge 1984-89; J. EFRON, Studies on the Hasmonean Period, Leiden 1987; M. GOODMAN, Judaism in the Roman World, in Ancient Judaism and Early Christianity (LXVI), Leiden 2006; M. HENGEL, L’«ellenizzazione» della Giudea nel I secolo d.C., C. MARKSCHIES, G. FIRPO (a cura di), Brescia 1993.

[5] La più antica opera letteraria prodotta dai giudei della Diaspora altro non fu che una traduzione della Torah in greco, nota come versione dei LXX (cf. Lettera di Aristea). Nel II sec. aev, i giudei d’Egitto scrivevano, basandosi su questa traduzione, saggi critici, trattati filosofici e componimenti poetici. In terra di Israele, il greco era in competizione con l’aramaico, la lingua del popolo: ma, anche in questo caso, molti giudei parlavano e scrivevano in greco. Come i Maccabei, che commissionarono la traduzione del primo libro della saga a loro ispirata, o la traduzione del libro di Ester avvenuta per mano di un ebreo di Gerusalemme, non tralasciando autori più tardi, come Filone e Giuseppe Flavio, che hanno scritto composizioni originali in lingua ellenica. Persino Bar Kokhvah, leader della terza rivolta giudaica, scrisse alcune delle sue lettere nella «lingua di Iafet». Senza contare che la stragrande maggioranza delle antiche iscrizioni funerarie ebraiche pervenuteci, tra Egitto e Roma, sono state scritte in greco. Cf. J. B. FREY, Corpus of Jewish Inscriptions. Jewish Inscriptions from the Third Century BC to the Seventh Century AD, New York 1975.

[6] SHAYE J.D. COHEN, Dai Maccabei alla Mishnah, pp. 52-65.

[7] POLIBIO, Storie, XXIX, 27.

[8] La polemica era ancora in auge nel I secolo dell’era volgare, come si evince dagli scritti di Filone di Alessandria, il quale non mancò di criticare aspramente gli «allegoristi estremisti», secondo cui le leggi della Torah potevano essere osservate in modo esclusivamente allegorico. Questi giudei, secondo Filone, pensavano di rimanere fedeli alla Torah pur non osservandone le leggi nei modi generalmente riconosciuti, ma ciò che facevano, in realtà, era eliminare le caratteristiche distintive del Giudaismo. FILONE DI ALESSANDRIA, De migratione Abrahami 89-90.

[9] M. GOODMAN, Storia dell’ebraismo, Torino 2019, p. 18, 28, 50, 64, 76.

[10] Ivi, pp. 103-107.

[11] J. MAIER, Storia del giudaismo nell’antichità, Brescia 1992, pp. 57-65.

[12] Anche nelle Antichità Giudaiche è riscontrabile una tendenza apologetica. Secondo Luciano Canfora, uno dei propositi di Giuseppe Flavio è quello di trasmettere correttamente il racconto degli eventi riguardanti il decisivo apporto ebraico per la salvezza di Giulio Cesare ad Alessandria d’Egitto (46 aev), sostegno oscurato dalle altre fonti (L. CANFORA, Cesare salvato dagli ebrei, in Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Roma-Bari 1999, pp. 233-239, in part. pp. 238-242). La massa di documenti che Giuseppe Flavio ha messo insieme sembra attestare, in modo oggettivo, l’attenta gestione da parte di Cesare dell’importante clientela (ebraica) orientale. In questa documentazione, il motivo della gratitudine per ciò che Ircano, sommo sacerdote degli ebrei, ed i suoi hanno fatto per Cesare è dominante. Il resoconto di Giuseppe ha un preciso valore polemico: serve a confutare la tradizione storiografica, molto vasta, che occultava l’apporto ebraico. Questa tradizione parte, secondo Canfora, da APPIANO, Guerra d’Alessandria 26, si dirama in TITO LIVIO, Periocha 112, CASSIO DIONE XLII, 40-41, PLUTARCO, Cesare 58. (Ivi, p. 239).

[13] GIUSEPPE FLAVIO, Contra Apionem, II, 8.

[14] Sul concetto di lunga durata F. BRAUDEL, Storia e scienze sociali. La lunga durata, in Scritti sulla storia, Milano 1973, pp. 57-92. Sulla nozione di «outillage mental», cf. Historiographies. I. Concepts et débats, vol. 1, C. DELACROIX (a cura di), Parigi 2010, p. 221; A. BURGIÈRE, L’école des Annales: une histoire intellectuelle, Parigi 2006, p. 44, 80.

[15] ORAZIO, Sermones, 1, 9, 69; MARZIALE, Ep., 4, 4; De Superst., cit. in AGOSTINO, De civitate Dei, 5, 11; PLUTARCO, Quaestiones conviviales, 4, 6, 2.

[16] GIOVENALE, Satirae, 5, 14, 96-105; 3, 14-6; 542-7.

[17] MARZIALE, Epigrammaton liber, 12, 57, 13-4; 12, 57, 11-4: GIOVENALE, Sat., 6, 542-7; 14, 96-106; PLINIO, Naturalis historia, XIII, 4.9; Cf. anche L. CRACCO RUGGINI, Pagani ebrei e cristiani: odio sociologico e odio teologico nel mondo antico, in Gli Ebrei nell’Alto Medioevo. Atti della XXVI Settimana di studio del CISAM, Spoleto 30 marzo – 5 aprile 1978, 2 voll., Spoleto 1980; P. SCHAFER, Giudeofobia – L’antisemitismo nel mondo antico, Roma 1999: D. GILULA, La satira degli ebrei nella letteratura latina, in A. LEWIN (a cura di), Gli ebrei nell’Impero Romano, Firenze 2001, pp. 195-215.

[18] ORAZIO, Sermones, 1, 9, 70; MARZIALE, Ep., 7, 30; GIOVENALE, Sat., 14, 86-106; Scriptores Historiae Augustae, Hadrianus, 14, 1-2.

[19] GIOVENALE, Sat., 14, 96-106.

[20] GIOVENALE, Sat., 3, 14-6; 6, 542-547; 6, 14, 96-106; MARZIALE, Ep., 12, 57, 13-14; 12, 57, 11-4.

[21] Cf. Contra Apionem, II, 7; TACITO, Historiae, V, 5.

[22] Ivi, V, 8.

[23] Sulla fortuna di Tacito nel pensiero pangermanista cf. PICCOLOMINI, De ritu, situ, moribus et condicione Theutoniae descriptio, 1496; MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, 1748; HERDER, Una filosofia per l’educazione dell’umanità, 1773; KLOPSTOCK, Hermanns Schlacht, 1769; ID, Hermann und die Fürsten, 1784; FICHTE, Discorsi alla nazione germanica, 1807-1808; KLEIST, La battaglia di Arminio, 1808-1809; DE BONSTETTEN, La Scandinavie et les Alpes, 1826; GOBINEAU, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, 1853-1854; ENGELS, Zur Urgeschichte der Deutschen, 1881 (in it. Storia e lingua dei Germani); ID, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884; MOMMSEN, Rede zur Feier des Geburstages Friedrichs des Groβen, 1886; CHAMBERLAIN, Fondamenti del XIX secolo, 1899; CROCE, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, 1943; MOMIGLIANO, Some observations on causes of war in ancient historiography, 1954; SYME, Tacitus, 1958; MOSSE, Le origini culturali del terzo Reich, 1968; BURKE, Tacitism, 1969. Rilevanti tracce lasciate dalla Germania di Tacito nella letteratura tedesca sono identificate in K. VON SEE, Deutsche Germanenideologie von Humanismus bis zum Gegenwart, 1970; CANFORA, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, 1979; DEMANDT, Theodor Mommsen, i Cesari e la decadenza di Roma. La scoperta della “Römische Kaisergeschichte”, 1995; MELLOR, Tacitus, 1995; KREBS, Un libro molto pericoloso: la Germania di Tacito dall’Impero Romano al Terzo Reich, 2012.

[24] TACITO, Historiae, V, 8.


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