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IL CRISTIANESIMO COME CORRENTE DEL GIUDAISMO, Jacopo Reale

Antigiudaismo e antisemitismo-Parte 2

Abstract: Il Cristianesimo non è nato come nuova religione o in antagonismo all’Ebraismo, del quale non nega la Legge mosaica o la tradizione ma, piuttosto, come movimento di rinnovamento spirituale per emendare l’Ebraismo dai suoi difetti, ovvero di condannare quelle forme di pseudo-religione che minacciavano di corromperne la dottrina e il carattere. Lo dice espressamente Gesù quando dice che è venuto non per cambiare la legge, ossia la Torah, ma per darne pieno compimento (Matteo 5, 17-19). Già in precedenza è stato delineato il quadro storico della genesi delle origini dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo come fenomeno politico, in questo contributo si affronta l’evoluzione del fenomeno in ambito romano-cristiano, che anche in questo caso ha alla base ragioni politiche, conseguenti alla guerra giudaica (66-70 e.v.) e ai tributi imposti dagli imperatori romani agli ebrei (il Fiscus Iudaicus) e ciò determinò la netta separazione del Cristianesimo come culto autonomo.

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Jacopo Reale

Jacopo Reale, laureato con lode in Storia della civiltà cristiana presso l’Università europea di Roma, dottorando in Storia e borsista presso Università di Roma Tor Vergata, borsista per gli studi giudaico-cristiani presso la Pontificia Università Gregoriana dove ha conseguito anche il master in 1° e 2° livello in “Ebraismo e relazioni ebraico-cristiane”, conoscitore del greco, latino, inglese, francese ed ebraico moderno.


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Il giudeocristianesimo

Il Cristianesimo nasce nell’alveo del Giudaismo cosiddetto del «secondo Tempio»[1] e non come religione indipendente. Sarebbe dunque più corretto parlare, relativamente al Cristianesimo di I secolo, di giudeocristianesimo[2], sebbene si tratti di un’etichetta applicata a posteriori dagli storici: Gesù, i suoi discepoli e persino gli autori dei vangeli sinottici, infatti, non avevano sentore né coscienza di appartenere a un’altra tradizione che non fosse quella giudaica. In questo senso dobbiamo intendere i numerosi richiami di Gesù all’adempimento della Legge mosaica, alla fede nel Dio di Israele e alle prassi tipiche del Giudaismo[3].

La lettura critica e attenta di alcuni episodi raccontati nei vangeli ci aiuta a comprendere come, ai tempi di Gesù – e, almeno sino alla fine del I secolo – la volontà dei primi cristiani non fosse quella di rompere con il Giudaismo e le sue istituzioni[4]. In questo senso, l’avversione nei confronti del Tempio, tema ricorrente nei vangeli, dev’essere interpretata come il desiderio di emendare l’Ebraismo dai suoi difetti, ovvero di condannare quelle forme di pseudo-religione che minacciavano di corromperne la dottrina e il carattere[5].

Nell’episodio della cacciata dei mercanti, ad esempio, traspare piuttosto l’indignazione di Gesù per le condizioni in cui si trovava il Santuario, ben lontano dal costituire la casa di preghiera annunciata dai Isaia, desiderata da ogni ebreo devoto[6]. Il suo atteggiamento non è dettato dalla volontà di rompere con la tradizione ma, anzi, è ‘positivo’ nei confronti del Tempio in quanto tale, ovvero come istituzione sacra depositaria del culto mosaico, pur esprimendosi negativamente nei confronti della sua forma attuale, percepita come un pervertimento. Per comprendere quanto questa polemica fosse radicata e frequente nel Giudaismo, sia passato[7] che coevo a Gesù, basti pensare che il modus operandi delle invettive che vertevano sulla corruzione o l’illegittimità della casta sacerdotale era condiviso anche da altri gruppi giudaici, come gli esseni e Qumran[8].

Il farisaismo

ll discorso della Montagna. Dipinto di Carl Heinrich Bloch (1834-1890)

Gesù era, inoltre, del tutto affine al farisaismo in merito a tutte quelle dottrine che li distingueva dagli altri gruppi, specialmente dai sadducei[9].

Con i farisei aveva in comune la credenza negli angeli, nell’immortalità e nello sviluppo della tradizione ebraica dopo Mosè: quando, nei vangeli, l’insegnamento di Gesù viene definito, in rapporto a quello dei farisei, di una più grande autorità, si fa riferimento al risultato che procedeva da una diversa interpretazione, non ad ipotetiche differenze di contenuti, morale, o metodo. A tal proposito, una menzione particolare merita il cosiddetto «discorso della montagna»[10]. Sebbene, nel corso della storia del Cristianesimo, si sia voluto identificare in questi passi un contrasto ideologico insanabile con il Giudaismo[11], in realtà, Gesù insegna una dottrina tipicamente ebraica, seguendo modalità caratteristiche della propria cultura. Anche in questo caso, il suo biasimo non è destinato alla Legge mosaica, ma agli «ipocriti»[12] di certe scuole di pensiero che operano un appiattimento casuistico, freddo e calcolatore, della tradizione. Gesù chiede dunque, con vigore e passione, che la Torah venga interpretata in virtù dello scopo naturale per la quale era stata donata a Israele: il suo compimento[13].

«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli» (Matteo 5, 17-19)

Nel fare questa richiesta, insegna esattamente alla maniera dei Tannaim (in aramaico, i «maestri»), articolando il proprio discorso e argomentando la propria esposizione attraverso l’impiego di contenuti e artifici retorici tipicamente rabbinici, non ultimo l’uso dell’antitesi («vi è stato detto che … ma, in verità, io vi dico che …»[14]). La sua dottrina rimane, quindi, «ebraica», in tutto e per tutto: Gesù riporta la sentenza di Dio e genera nuove interpretazioni (halakhot, norme[15]), tanto che alcuni studiosi hanno scritto di una «casa del midrash di Gesù»[16], ovvero di una «scuola» improntata allo studio delle Scritture ebraiche che, a volte, in ragione del rigore dottrinale suscitato dal maestro, rifiutava persino le estensioni farisaiche di alcuni precetti, da lui considerate «tradizione degli uomini»[17] e non legge divina. Trattasi, anche in questo caso, di un modo di polemizzare tipico, interno alla cultura ebraica di allora[18].

Gesù non fonda ma aderisce al movimento cenobitico

Infine, bisogna dire che Gesù non fu il fondatore del movimento del quale entrò a far parte: difatti, viene battezzato e iniziato alla vita cenobitica[19] da Giovanni il Battista[20].

Dopo la morte del maestro lo stile di vita di Gesù cambiò: lo dimostra un dialogo con i farisei, in cui afferma che il Battista non mangiava pane (ma, in aramaico, lehama può significare anche carne) e non beveva vino, ma che, tuttavia, il Figlio dell’Uomo mangia e beve[21].

Questo fatto può essere compreso nell’ambito della polemica tipicamente giudaica, da sempre in atto contro gli idolotiti, ovvero coloro che si cibavano della carne delle bestie sacrificate presso i templi pagani[22], mentre l’astensione totale dall’alcol era probabilmente dovuta al voto perpetuo di nazireato fatto da Giovanni[23]. Alcuni ebrei, per estensione di questi divieti, rifiutavano in toto il consumo di carne: Gesù si distingue per un’interpretazione più moderata[24] della Legge ebraica, che fissava un limite temporale alla consacrazione.

Il fiscus iudaicus

Quanto finora premesso vorrebbe suggerire al lettore una domanda: se il Cristianesimo nasce come una forma di Giudaismo, come può essersi formato, o anche solo esistere, l’antigiudaismo cristiano?

La risposta a questa complessa domanda risiede in primis nel vaglio degli eventi relativi alla prima guerra giudaica (66-70 e.v.) e alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, evento culminante della repressione romana (70 e.v.), a seguito della quale si sono verificati alcuni eventi cruciali, i cui effetti furono poi determinanti nella lunga durata[25]. Anzitutto, alla scomparsa del Santuario e del culto, che implicava il dileguamento dell’ultimo residuo di sovranità politica ebraica (la Giudea), aveva fatto seguito la promulgazione di una legislazione antigiudaica, fondata su fattispecie giuridiche particolari che, in futuro, avrebbero costituito una solida base per future interpretazioni circa lo status degli ebrei.

Com’è noto, con l’abbattimento del Tempio venne meno la consuetudine, accordata da Giulio Cesare agli ebrei posti sotto il dominio di Roma, di inviare volontariamente, ogni anno, un obolo di mezzo siclo, pari a due dracme (da qui la dicitura didrachmon), per il mantenimento del culto[26]. Vespasiano ordinò che tale consuetudine fosse convertita in un tributo per il culto del tempio di Giove Capitolino a Roma, istituendo così il Fiscus Iudaicus.

L’abiura dall’ebraismo consentiva l’esclusione dal Fiscus Iudaicus

Tito Flavio Domiziano (51 e.v.-96 e.v.)

In breve tempo, l’obolo divenne una tassa che, per essere riscossa, faceva riferimento a liste in cui figuravano non solo tutti gli ebrei, ma anche i molti semi-proseliti dell’Ebraismo: per cancellarsi, occorreva fare atto formale di abiura[27].

Vespasiano non si era però preoccupato di chiarire esattamente ‘quali’ giudei dovessero essere sottoposti al nuovo tributo. Fu suo figlio Domiziano a gestire l’applicazione di questa tassa con severità e ad imporla a due gruppi di individui, a chi nascondeva le proprie origini ebraiche e a coloro che vivevano una vita giudaica senza riconoscerlo pubblicamente, i così detti giudaizzanti[28].

I giudeocristiani erano già attivi a Roma da diverso tempo[29]; l’applicazione del Fiscus Iudaicus agì allora riformando la società coeva, in modo che il Cristianesimo iniziasse ad esser considerato una religione separata dal Giudaismo e che prendesse così forma ciò che gli storici hanno definito «separazione delle strade», ovvero il distacco del primitivo nucleo cristiano dall’alveo giudaico[30]. Ciò fu possibile perché il legislatore stabilì, de iure, che i cristiani non erano più da considerarsi ebrei e che, pertanto, non costituivano una categoria a cui applicare il tributo, il quale non poteva essere imposto né ai cristiani gentili né ai giudeocristiani[31].

Si ha riscontro dell’avvenuta separazione alcuni secoli più tardi, sotto il regno di Diocleziano, quando fu il turno dei cristiani essere oppressi: lo stato romano allora li perseguì per ateismo e, in quanto atei, non rientravano nella categoria soggetta all’esenzione del culto imperiale, un privilegio riconosciuto soltanto agli ebrei[32].

Infine, bisogna dire che un’altra importante conseguenza della distruzione del Tempio fu la riorganizzazione delle gerarchie ebraiche, avvenuta in seguito ad un sinodo tenuto a Yavneh, presieduto da un allievo di rabbi Hillel, Jochanan ben Zakkai, a seguito del quale i saggi della città deliberarono che l’unica dottrina ufficiale del Giudaismo, da quel momento in poi, sarebbe stata quella farisaica[33].


Note:

[1] G. ARANDA PÉREZ, F. GARCÍA MARTÍNEZ, M. PÉREZ FERNANDEZ, Letteratura giudaica intertestamentaria, Brescia 1998; B.G. BOSCHI, Alle radici del Giudaismo, in B. CHIESA (a cura di), Correnti culturali e movimenti religiosi del Giudaismo, Atti del Congresso Internazionale dell’AISG, Roma 12-15 nov. 1984, pp. 9-23; M. GOODMAN, Judaism in the Roman World, in Ancient Judaism and Early Christianity, LXVI, Leiden 2006; G. IBBA, La preghiera alla fine del Secondo Tempio. Una selezione, Bologna 2017; P. SACCHI, Storia del Secondo Tempio: Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Torino 1994; Id., Il giudaismo del Secondo Tempio, in Ebraismo, G. FILORAMO (a cura di), Bari 2007, pp. 53-123.

[2] C. GIANOTTO, Il giudeocristianesimo, in «Primi secoli. Il mondo delle origini cristiane», 13, (2002), contributo monografico; P. STEFANI, Il giudeocristianesimo, in Guida alla lettura della Bibbia. Approccio interdisciplinare all’Antico e al Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 1995, pp. 361-371; Verus Israel: nuove prospettive sul giudeocristianesimo. Atti del Colloqui di Torino (4-5 novembre 1999), G. FILORAMO, C. GIANOTTO (a cura di), Brescia 2001.

[3] Cf. Mc 1,21; 12, 28-34; Mt 5,17-18; 15,21; Lc 4,16; 4,31; 4,40; 24, 27.44; e Rom 11,1; 15,8. Senza contare che, nel testo originale greco, Gesù è chiamato «rabbi» e «rabbunì», vedi Mt 26,25; 26,49; Mc 9,5; 11,21; 14,45; Gv 1,38; 1,49; 3,2; 4,31; 6,25; 9,2; 11,8 (rabbi); Mc 10,51; Gv 20,16 (rabbuinì, lett. «nostro maestro»). Tra gli studi si faccia riferimento a J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, 5 voll., Brescia 2001-2017; R. STARK, The Rise of Christianity- How the Obscure, Marginal Jesus Movement Became the Dominant Religious Force in the Western World in a Few Centuries, San Francisco 1997.

[4] J. H. CHARLESWORTH, Jesus within Judaism. New Light from Exciting Archaeological Discoveries, Essex 1988, pp. 54-75; Id, Gesù e la comunità di Qumran, T. FRANZOSI (a cura di), Casale Monferrato 1997; E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, G. VERMES, F. MILLAR, M. BLACK (a cura di), 2 voll., Brescia 1985-87; G. THEISSEN, Gesù e il suo movimento, Torino 1979.

[5] Altrimenti non si spiegherebbe il finale del vangelo di Luca, cf. Lc 24,53: «Poi [Gesù] li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio».

[6] Is 56,7. Cf. anche Mc 11, 7-19; Mt 21, 8-19; Lc 19, 45-48; Gv 2, 12-25.

[7] Cf. Ger 7,4ss.

[8] Gli esseni e la comunità di Qumran consideravano il Tempio «contaminato» (Documento di Damasco 4,18; 5,6s; 1QpHab 12,7-9). Giuseppe Flavio ci informa che gli esseni inviavano lo stesso offerte votive, secondo «prescrizioni di purità differenti»: ciò implicava che non potessero accedere al cortile comune del Santuario e che offrissero, quindi, «sacrifici tra loro» (A.I. 18,19). Prescrizioni di purità differenti tra i discepoli di Giovanni e i «giudei» sono anche attestate, in Gv 3,25 («Sorse allora una disputa tra i discepoli di Giovanni e un Giudeo riguardo la purificazione»). Le invettive di Gesù non devono essere interpretate come una contrapposizione al culto: si tratta di ‘sermoni’ ispirati dal biasimo per l’esercizio, all’interno del Tempio, di un sacerdozio giudicato illegittimo. Vedi: A.I. BAUMGARTEN, Josephus on Essene Sacrifice, in “JJS” (45), 1994, pp. 169-183; J. M. BAUMGARTEN, The Essenes and the Temple, in Studies in Qumran Law, Leiden 1977, pp. 57-74.

[9] Sulle forme e le «scuole» di pensiero del Giudaismo dell’epoca del secondo Tempio, cf. GIUSEPPE FLAVIO, A.I., 13, 171. Un importante aspetto della dottrina, in particolare, era condiviso da Gesù come dai farisei, ovvero la credenza nella resurrezione dei morti in prossimità del Giorno del Giudizio. Cf. TB Sanhedrin 91a; Mc 12,18-27; Mt 22,23-33; Lc 20, 27-40; At 23,8. Su sadducei e farisei, vedi anche J. LIGHTSTONE, Sadducees versus Pharisees: The Tannaitic Sources, in Christianity, Judaism and other Greco-Roman Cults: Studies for M. Smith, Leiden 1975.

[10] Mt 5,1-7,29.

[11] È il caso di studiosi illustri, come Karl Heinrich Graf (1815-1869) e Julius Wellhausen (1844-1918), ispiratori di tutta la critica biblica del XIX e XX secolo. Costoro hanno conferito all’esegesi biblica una forma classica e definitiva, ampliando l’opposizione fra Legge e Vangelo, descritto con una religione naturale, razionale e umanistica, in sostanziale antitesi con la tradizione ebraica. Su questo argomento cf. J.L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia, Firenze 2019, pp. 133-217.

[12] Per l’ampia diffusione di questa forma di critica nel pensiero (ebraico) contemporaneo a Gesù, cf. i passi evangelici Mc 2,13-17; 2,23-28; 3,1-6; 7,1-23; 8,11-13; 8,14-21;12,13-17; 12,38-40; 12,41-44; Mt 6,1-4; 6,5-15; 6,16-18; 7,1-6; 7,23; 7,28-29; 9,13; 11,16-24; 12,1-14; 12,22-45; 15,1-20; 16,1-4; 16,5-12; 22,15-22; Lc 5,27-32; 6,1-11; 6,37-42; 7,31-35; 11,37-53; 12,1-12; 12,54-59; 13,10-17; 20,20-26; 20,45-47; 21,1-4; Gv 5,9-18; 7,14-28; con CD 1,12; 4,19; 8,12.18; 19,24.31; 4QpNah (i frammenti che compongono il Documento di Damasco hanno come riferimenti: 4Q265-73, 5Q12, e 6Q15). E vedi anche, nella letteratura rabbinica, TB, Sotah 22b; 41bss; TG, Berachot 14b.

[13] Per comprendere questo concetto è utile l’esegesi dei testi. Cf. Mt 5,17-18: il verbo katalūo (abrogare), che nell’idioma ellenistico è caratterizzato da una chiara valenza giuridica, è contrapposto al verbo plērō, che significa «dare senso compiuto». Il termine plērō è il contrario di katalūo: desumiamo ciò dall’utilizzo che viene fatto del lemma nella LXX, usato, appunto, nel senso di «conferma» (1Re 1,14, vers. LXX). L’evangelista Matteo ricorre spesso a questa terminologia, ogni volta che intende dare risalto al compimento delle Scritture: vedi Mt 2,15, dove è scritto: «Affinché si adempisse quanto annunciato da Signore per mezzo del profeta […] che dice “Dall’Egitto ho richiamato mio figlio”». Nel caso citato, il compimento è letterale e riguarda la profezia di Osea (11,1).

[14] L’arte compositiva di Matteo rivela la dimestichezza dell’autore con la tradizione ebraica. Le tecniche usate sono spesso rabbiniche: non solo l’uso dell’antitesi (Mt 5,22-48), ma anche lo schema numerico utilizzato per strutturare le pericopi, l’impiego costante di figure retoriche come inclusioni, parallelismi e chiasmi, trovano molti riscontri nella salmodia e in altri libri del Tanakh. Gli schemi triadici e settenari sono frequenti, così come quelli binari (Mt 4,1-11; 6,1-18; 9,27-31; 20,29-34; 23,13-32). Cf. M. GRILLI, Vangeli sinottici e Atti degli apostoli, Bologna 2016, pp. 193-195, 218-227.

[15] Cf. Mt 5,48 («Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste») che interpreta Lv 19,2 («Siate santi perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo»). Questa formula trova anche significativi paralleli in alcuni testi di Qumran, tra cui 1QS 8,21, e nel Legum Allegoriae di Filone di Alessandria (I, VII, 17-18).

[16] S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Brescia 1985, cit. p. 97.

[17] Mc 7, 6-8; Mt 15, 1-9.

[18] Is 29,13. Cf. A.I. BAUMGARTEN, The Pharisaic Paradosis, in “HTR” (80), 1987, pp. 63-77; D. BOYARIN, Il vangelo ebraico, Brescia 2012, pp. 104-107; talvolta, i galilei non vedevano con simpatia le innovazioni farisaiche, vedi S. FREYNE, Galilee, from Alexander the Great to Hadrian, 323 B.C.E. to 135 C.E.: A Study of Second Temple Judaism, in “Univ. Not. Dame Center Study of Jud. and Christ. in Ant.” (5), Wilimington 1980, pp. 316-318, p, 322; Y. FURSTENBERG, Defilement Penetrating the Body: A New Understanding of Contamination in Mark 7,15, in “NTS” (54), 2008, p. 178; i farisei volevano convincere gli altri ebrei ad accettare l’Halakah farisaica (ovvero, l’interpretazione della Legge mosaica secondo i farisei): M. GOODMAN, Mission and Conversion: Proselytizing in the Religious History of the Roman Empire, Oxford 1994, p. 70. Gesù contrasta la posizione dei farisei e propone una regola più severa: K. C. G. NEWPORT, The Sources and Sitz im Leben of Matthew 23, Sheffield 1995, pp. 137-145.

[19] Sulla vita cenobitica nel Giudaismo di I secolo, cf. EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, II, 17; FILONE, De specialibus legibus 3, 178; Id., Quod omnis probus liber sit 75ss; Id., De vita contemplativa, 2,22-24. Stemberger ha individuato nel Documento di Damasco (CD), l’origine di queste comunità, che risiedevano nel deserto in prossimità del Mar Morto (cf. Dione Crisostomo cit. in SINESIO, Dio, vel de suo ipsius vitae instituto, 3.2), a partire dal trasferimento da Babilonia, avvenuto in seguito alle vittorie dei Maccabei, quindi dall’anno 165 aev in poi. Il primo libro dei Maccabei riporta, effettivamente, le peripezie di una comunità discesa nel deserto per rifugiarsi nelle caverne (1Mac 1,29ss). Vedi anche G. STEMBERGER, Farisei, sadducei, esseni, Brescia 1993, pp. 154-161.

[20] Cf. Mc 1,9-11 Mt 3,13-17; 4,1-11; Lc 3,21-23; 4,1-13; Gv 1,31-34. Vedi anche J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, II, pp. 37-38.

[21] Lc 7,33-34.

[22] Cf. Lv 17,7; 1Cor, 8-10; At 15,20.29.

[23] Cf. Nm 6,1-21; Gdc 13,1-14; Mc 1,6; Lc 3,1-20. In un passo in particolare (Lc 1,80), gli studiosi hanno creduto di identificare una possibile relazione tra Giovanni e Qumran. S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù, p. 63.

[24] Un altro esempio di moderazione si evince dalla questione delle spighe raccolte dai discepoli di sabato (cf. Mt. 12,1-8; Mc. 2,23-28; Lc. 6,1-5), che può essere inquadrata come una disputa tra chi sosteneva un’interpretazione fondamentalista e intransigente di Es 31,14-17 e chi un’altra, come nel caso di Gesù, più articolata. Posizioni dottrinali molto simili, se non addirittura identiche, a quella a espressa da Gesù nei vangeli – in merito alle interpretazioni sui lavori proibiti durante il sabato – sono state sostenute dai rabbanim Hiyya (TB Shabbat 7,9b), Ismael e Akiva (Mishnah Edujjot 2,6), Abaje (TB Beitzah 12b) e Jehuda (TB Shabbat 128a): quest’ultimo, come Gesù, proveniente dalla Galilea.

[25] Sulla rivolta giudaica del 66-70 cf. L. CANFORA, Il tesoro degli ebrei: Roma e Gerusalemme, Roma-Bari 2021; M., GOODMAN, The Ruling Class of Judaea. The Origins of the Jewish Revolt against Rome 66-70, Cambridge 1987; Id., Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche, Roma-Bari 2012, pp. 480-506.

[26] Si tratta dell’autotassazione di due dracme (o mezzo siclo d’argento), accordata da Cesare, a cui gli ebrei si sottoponevano dopo il ventesimo anno d’età. I proventi venivano poi inviati a Gerusalemme per il mantenimento del culto del Tempio (cf. Es, 30, 11-16; Mt 17, 23-27; Mishnah, trattato Sheqalim). Il didrachmon non va confuso con il tributo dovuto a Roma (cf. Lc 20, 20-26).

[27] G. FLAVIO, B.I., 7, 218; C. DIONE, Historia Romana, LXVI, 7, 2.

[28] SVETONIO, Domitianus 12, 1-2.

[29] «Claudio espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine» SVETONIO, Vita Claudi, 13,4; 25,4; anche Orosio in Adversus Paganos, 7, 6, 15 parla di espulsione, nell’anno 49; Cassio Dione in Historia Romana, 60, 6, 6 parla, invece, di divieto di assemblea nel 41, ma gli Atti degli Apostoli (18,2) confermano la versione di Svetonio e Orosio. Cf. anche M. SORDI, L’espulsione degli Ebrei da Roma nel 49 d.C., in Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 259-269.

[30] Sulla separazione delle strade cf. D. BOYARIN, Border Lines: The Partition of Judaeo-Christianity, Philadelphia 2004; Id., Il vangelo ebraico. Le vere origini del Cristianesimo, Brescia 2012; S.J.D., COHEN, Dai Maccabei alla Mishnah, pp. 329-365; J.D.G., DUNN, The Parting of the Ways Between Christianity and Judaism and Their Significance for the Character of Christianity, London 1991.

[31] M., HEEMSTRA, The Fiscus Iudaicus and the Parting of the Ways, Tübingen 2010; S.J.D. COHEN, Dai Maccabei alla Mishnah, pp. 333-335.

[32] Sulle persecuzioni anticristiane e il privilegio giudaico dell’esenzione dal culto imperiale cf. GIUSTINO, Apologia, 1,6,1; 1,24,1-3; TG, Avodah Zarah, 5,4; M., GOODMAN, Roma e Gerusalemme, pp. 584-585; A.M., RABELLO, Sui rapporti tra Diocleziano e gli Ebrei, in «La Rassegna mensile di Israel», 45, 1/3, (1979), pp. 43-78; G., RINALDI, Giudei e pagani alla vigilia della persecuzione di Diocleziano: Porfirio e il popolo di Israele, in «Vetera Christianorum», 29, (1992), pp. 113-136; U., ROBERTO, Diocleziano, Roma 2014, p. 168; ; E.M., SMALLWOOD, The Jews under Roman Rule from Pompey to Diocletian, Leiden 1976; F. ZANETTI, Gli ebrei nella Roma antica. Storia e diritto nei secoli III-IV d.C., Napoli 2016.

[33] TB, Gittin 56b. Studi sul farisaismo: J.W. BOWKER, , Jesus and the Pharisees, Cambridge 1973; J.T. CARROL, Luke’s Portrayal of the Pharisees, in «The Catholic Biblical Quarterly» 50, (1988), pp. 604-621; A. FINKEL, The Pharisees and the Teacher of Nazareth, Leiden-Köln 1964; L. FINKELSTEIN, The Pharisees. The Sociological Background of Their Faith, 2 voll., Philadelphia 1962; J. LIGHTSTONE, Sadducees versus Pharisees: The Tannaitic Sources, in Christianity, Judaism and other Greco-Roman Cults: Studies for M. Smith, 4 voll., Leiden 1975, III, pp. 206-217; J. NEUSNER, The Rabbinic Traditions about the Pharisees before 70, 3 voll., Leiden 1971; Id., From Politics to Piety. The Emergence of Pharisaic Judaism, New Jersey 1973; Id., The Pharisees. Rabbinic Perspectives, in Studies in Ancient Judaism, Hoboken 1985. Sul concilio di Yavneh del 70 cf. S.J.D. COHEN, The Significance of Yavneh: Pharisees, Rabbis, and the End of Jewish Sectarism, in «Hebrew Union College Annual», 55, (1984), pp. 27-53; M. GOODMAN, Storia dell’ebraismo, pp. 289-290; J. NEUSNER, Development of a Legend: Stories on the Traditions Concerning Yohanan ben Zakkai, Leiden 1970.

CREDITI: immagine di primo piano ripresa dalle illustrazioni delle Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel, scritta in lingua latina nel 1493.

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