Antigiudaismo e antisemitismo-Parte 3
Abstract: L’antigiudaismo è sorto nel contesto storico e culturale greco come la più antica forma di xenofobia ed è stato in seguito ereditato nel mondo romano per ragioni politiche, poiché l’imposizione dei tributi agli ebrei, a seguito della rivolta della prima guerra giudaica, determinò la separazione dei giudeicristiani, movimento sorto come corrente dell’ebraismo, e per ragioni di opportunità politica, si è riabilitato la figura del sanguinario Pilato per accusare di deicidio gli ebrei.
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Jacopo Reale, laureato con lode in Storia della civiltà cristiana presso l’Università europea di Roma, dottorando in Storia e borsista presso Università di Roma Tor Vergata, borsista per gli studi giudaico-cristiani presso la Pontificia Università Gregoriana dove ha conseguito anche il master in 1° e 2° livello in “Ebraismo e relazioni ebraico-cristiane”, conoscitore del greco, latino, inglese, francese ed ebraico moderno.
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La separazione del cristianesimo dal giudaismo nel I secolo
Si è già visto in precedenza come l’antigiudaismo sia la forma più arcaica di xenofobia, nata originariamente nella cultura greca ed ereditata, in più fasi, attraverso la cultura ellenistico-romana.
Il Giudeocristianesimo, nato originariamente nell’alveo del Giudaismo e non come religione indipendente, iniziò ad esser considerato una religione separata sotto l’imperatore Domiziano (51-96 e.v.) a seguito dell’applicazione del Fiscus Iudaicus ai Giudei, dopo che si erano ribellati a Roma con la prima guerra giudaica (66-70 e.v.) e, sconfitti, subirono la distruzione del Tempio di Gerusalemme, evento culminante della repressione romana (70 e.v.).
La «separazione delle strade», ovvero il distacco del primitivo nucleo cristiano dall’alveo giudaico, fu determinato da ragioni politiche poiché i cristiani, secondo la legge romana, non erano più considerati ebrei e, pertanto, non erano soggetti al tributo del fiscus iudaicus, così il giudeocristianesimo divenne, di fatto, una setta: talvolta, i rabbini incontravano i giudeocristiani e discutevano con loro, ma risulta chiaro, dai racconti, che costoro vivevano già ai margini della società ebraica, avvalorando così l’impressione che giudei non-cristiani e cristiani-gentili costituissero, già agli inizi del secolo, comunità separate, ciascuna con proprie identità, rituali, istituzioni, figure autorevoli e tradizioni[1]. È in questa epoca, in un’opera di Ignazio di Antiochia (35-107 ev), che compare, per la prima volta, la parola «Cristianesimo», che l’autore utilizza in opposizione a «Giudaismo»[35].
La seconda rivolta giudaica (115-117 e.v.) portò al declino[3] del Giudaismo ellenistico e della comunità ebraica di Alessandria: il risultato più concreto fu la transizione della tradizione giudaico-alessandrina, frutto dell’integrazione tra forme ellenistiche e tradizione ebraica[4], da maestri ebrei come Filone ai padri della Chiesa, Clemente e Origene[5]. Nel II secolo si diffondono anche testi, come la Lettera di Barnaba, in cui si afferma che i cristiani comprendono le Scritture, in particolare le leggi della Torah, contrariamente ai giudei, definiti il «popolo del passato»[6]. Su questo tema si tengono anche le prime (apparentemente) innocue dispute tra ebrei e cristiani[7]. Tale dualismo, che presupponeva una dicotomia semantica del tutto artificiale e infondata, ovvero non supportata dai testi fondanti del Cristianesimo (il Nuovo Testamento), si strutturava sulla convinzione secondo cui la Chiesa aveva sostituito il popolo, le pratiche e la tradizione ebraica; teoria che, in realtà, implicava il rigetto delle origini ebraiche del Cristianesimo[8] in favore del platonismo, che aveva il doppio vantaggio di condividere alcune delle categorie filosofiche del Giudaismo coevo e di risultare, al contempo, più familiare e comprensibile ai cristiani di origine pagana[9].
Le prime accuse di deicidio
In questo periodo compaiono anche nuove accuse nei confronti degli ebrei, come quella del
deicidio, che identificava nel popolo di Israele, la sua interezza[10], il responsabile dell’assassinio del Messia figlio di Dio. Esposta per la prima volta da Melitone di Sardi (170 e.v.), questa idea faceva sua la teoria pseudo-storica e meta-teologica secondo cui i giudei («Israele») avendo ucciso Cristo, avevano ucciso anche Dio: pertanto, Israele stesso sarebbe stato rigettato da Dio a vantaggio dei gentili[11]. Si tratta di una narrazione tanto falsa, quanto fortunosa, per la sua diffusione, che vede i «perfidi giudei» autori del più terribile dei delitti. Ma analizziamo i fatti storici, partendo dal processo di Gesù. Da un esame profondo dei testi che tiene conto del contesto storico e della cultura di origine di Gesù, emerge chiaramente che la sua condanna fu dovuta al contrasto ideologico, insanabile, sollevato dalla radicalità di alcuni aspetti della sua dottrina, non ultimi il rifiuto delle immagini e della divinità dell’imperatore[12]. Sono temi particolarmente attuali nel Giudaismo dell’epoca, come si è visto nel caso della rivolta dei Maccabei del secolo precedente.
Ci troviamo in una fase storica in cui si manifestano problemi analoghi a quelli affrontati dagli ebrei illo tempore, in cui la legittimità del principio dell’autonomia ebraica, sino ad allora pienamente riconosciuto dallo Stato[13], viene seriamente messo in discussione; e che vede il Principato, fondato da Augusto, virare verso un orizzonte autocratico, prima con Tiberio, poi con Caligola e, infine, con Nerone, sino al cambio di dinastia avvenuto con la presa del potere da parte di Flavio Vespasiano.
Le ragioni politiche della condanna di Gesù
La divinizzazione del sovrano era stata, da sempre, idea indigesta e inaccettabile per gli ebrei: con Augusto, si era imposta la necessità di riadattare alcune leggi, in principio applicate verso chi ledeva la dignità delle istituzioni repubblicane, contro chi si rifiutava di riconoscere l’origine divina del potere di Roma: la fattispecie di lesa maestà o crimen maiestatis fu dunque mutuata a tutela della persona dell’imperatore[14]. In questo contesto, l’aspettativa messianica nutrita dal gruppo ebraico guidato da Gesù sfidava i presupposti dell’ideologia imperiale, anch’essa presentata come salvifica ed «evangelica»[15], in una regione dell’impero[16] dove erano frequenti rivolte armate portate avanti in nome dell’indipendentismo e del messianismo[17].
Gesù, ovviamente, non era né uno zelota né un ‘rivoluzionario’, dal momento che numerosi sono i suoi interventi contro l’uso della violenza; tuttavia, non si può negare che tra i dodici apostoli – si ipotizza almeno tre, se non cinque – qualcuno di loro avesse un retroterra zelota[18]. Il ritratto del Gesù storico che emerge dalla lettura critica dei testi indica chiaramente che rabbi Yehoshua osò protestare, disarmato, contro la crudele dominazione romana, opponendosi all’alto clero, rappresentato dai sadducei, contrastando al contempo, con la sua predicazione, la pusillanimità della fede di molti suoi contemporanei, rimanendo però sempre profondamente devoto alla tradizione ebraica e contrario all’uso delle armi[19].
Si potrebbe dire che Gesù avesse individuato una sorta di «terza via», intermedia tra il quietismo della maggioranza e il fanatismo degli zeloti: l’approccio ‘non violento’ non implicava, però, il suo disinteresse per le questioni politiche contemporanee.
«Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada […] chi non prende la sua croce dietro a me, non è degno di me»[20].
Gesù sta rivolgendo un benevolo avvertimento ai giovani di Galilea che volevano aderire al suo movimento: chi tra loro non era pronto a rischiare le conseguenze estreme – ovvero, la morte in croce, per mano dei romani – era meglio che non vi prendesse parte.
Il pretesto per la consegna di Gesù ai Romani
La condanna religiosa del Sinedrio, per blasfemia[21], fu quindi solo un pretesto: la consegna di Gesù ai romani era, infatti, già prevista (e desiderata), al fine di negare al pericoloso Pilato qualsiasi pretesto per intervenire contro il Tempio e contro la popolazione in occasione della festa pasquale[22]. Si tratta di una condanna politica, come si evince dalla lettura del vangelo di Luca, dove a Gesù sono mossi tre ordini di accuse, due delle quali non hanno niente a che vedere con la Legge ebraica[23].
Una ulteriore conferma giunge dal vangelo di Giovanni che, a differenza dei sinottici, non menziona neanche il processo giudaico: ovvero, non descrive un processo formale dinnanzi a una corte. Giovanni riferisce che Gesù viene interrogato in privato da Anna e poi da Caifa, senza fare menzione né delle accuse, né delle incriminazioni ufficiali di cui parlano gli altri evangelisti. Giovanni presenta il processo, in buona sostanza, come un procedimento pretestuoso e fittizio, irregolare per gli stessi parametri della Legge giudaica[24]. Forse, anche per questa ragione, Gesù non mancò di rivendicare la sua messianicità di fronte al sommo sacerdote Caifa[25] e la sua autorità dinnanzi governatore romano Pilato («Il mio regno non è di questo mondo»[26]), affermazioni che furono interpretate, da parte dell’autorità, come minacce irricevibili e punite come tali.
Gesù muore dunque sulla croce[27], come previsto dalla legge romana per i sediziosi, circondato da briganti e zeloti. La revisione della storia che ha poi finito per attribuire la colpa della sua morte prima a «erodiani», sadducei, farisei e poi, indiscriminatamente, a tutti i «giudei»[28] (ma in quel contesto lo erano tutti, sia discepoli che i detrattori di Gesù, con l’eccezione dei romani), ha avuto inizio con la progressiva manipolazione della storia relativa ai fatti processuali, messa in atto sin dalla prima fase della redazione dei vangeli, che sono stati scritti[29] tra il 66 e il 95 e.v.
Pilato descritto come ignavo o addirittura divinizzato per ragioni di opportunità
A quel tempo, come si è detto, dopo la distruzione del Tempio e l’istituzione del fiscus iudaicus, gli ebrei erano perseguitati da Domiziano: agli studiosi è sembrato dunque plausibile affermare che i giudeocristiani, al fine di non attirare ulteriormente l’ostilità dell’Impero, abbiano preferito ‘ripulire’ la figura di Pilato e, quindi, redigere una versione dei fatti che ometteva le effettive responsabilità dei romani nelle vicende relative la Passione[30].
Questa tesi è ampiamente dimostrata, ancora una volta, dal confronto critico delle fonti, le quali rivelano una serie di contraddizioni esistenti proprio sulla figura di Pilato. L’immagine che emerge dai vangeli è quella di un ignavo[31], che si lava le mani del destino del Figlio dell’Uomo: sorprendentemente però, viene proclamato addirittura santo, alcuni secoli più tardi, da alcune chiese (la copta e l’etiope). Come si spiega questo cambiamento? Le fonti di I secolo parlano chiaramente di Pilato come di un sanguinario, un uomo che si distingueva per il suo atteggiamento marcatamente dispotico che, molto spesso, lo aveva reso inviso al popolo.
«Pilato, governatore della Giudea, quando trasse l’esercito da Cesarea e lo mandò ai quartieri d’inverno di Gerusalemme, compì un passo audace in sovversione delle pratiche giudaiche, introducendo in città i busti degli imperatori che erano attaccati agli stendardi militari, poiché la nostra legge vieta di fare immagini. È per questa ragione che i precedenti procuratori, quando entravano in città, usavano stendardi che non avevano ornamenti»[32].
L’azione di Pilato, descritta da Giuseppe Flavio, è altamente rappresentativa perché è il primo atto con il quale dà inizio alla sua giurisdizione.
La vera natura di Pilato
La descrizione del governatore romano è quella di un uomo «intransigente, testardo e duro»[33], che disprezza gli usi e i privilegi giudaici: lo stesso metro di giudizio sarà adottato per definire, in seguito, la condotta di Caligola[34]. Anche Filone di Alessandria descrive Pilato come un uomo incline alla «frode, la violenza, la ruberia, la tortura, le offese, le frequenti esecuzioni senza processo e una crudeltà costante e intollerabile»[35]. L’empietà di Pilato è nota persino all’evangelista Luca, che conferma incontrovertibilmente l’avversione di Pilato nei confronti del popolo ebraico, riportando un episodio che, troppo spesso, è passato inosservato:
«In quel momento arrivarono alcuni a riferirgli il fatto di quei galilei che Pilato aveva fatto uccidere mentre stavano offrendo i loro sacrifici»[36].
Rileggiamo con questa prospettiva il dialogo tra Pilato e Gesù e capiamo in quale clima di tensione ci si trovasse realmente. Alla rivendicazione di Gesù «Il mio regno non è di questo mondo», Pilato risponde beffardamente, chiedendogli: «Dunque sei tu re?»[37]. Lungi dal lavarsene le mani, appare chiaro come il governatore romano non si disinteressi affatto del destino di Gesù, perché lo considera il pericoloso capo di uno gruppo messianico che, potenzialmente, avrebbe potuto dar adito a una rivolta contro Roma in occasione del raduno dei fedeli durante la Pasqua: rivolte che molto spesso, a quei tempi, avevano avuto origine in Galilea, terra natìa di Gesù[38]. Pilato, quindi, non sta semplicemente interloquendo con l’accusato, ma sta conducendo un vero e proprio interrogatorio ritenendo, inoltre, di trovare conferma alle sue supposizioni.
La riabilitazione politica del sanguinario Pilato e la calunnia del deicidio
La riabilitazione a cui è stato successivamente sottoposto fu dovuta a evidenti ragioni di opportunità, cioè per non offendere la suscettibilità dell’ambiente in cui si andava predicando la ‘nuova’ religione alla fine del I secolo. Tale processo di manipolazione e, infine, di falsificazione della storia giunse addirittura alla glorificazione, con la redazione degli apocrifi greco-romani (IV secolo), del governatore romano, di Tiberio e di altri personaggi di Roma antica. La tendenza all’alterazione delle vicende storiche inerenti al processo di Gesù emerge, ancora più distintamente, anche da una lettura attenta del vangelo apocrifo attribuito a Pietro, nel quale l’autore elimina e omette con disinvoltura tutto ciò che poteva risultare offensivo per i romani, attribuendo ogni responsabilità al popolo ebraico[39].
Possiamo concludere dunque prendendo atto che l’accusa di deicidio è una calunnia; insieme all’omicidio rituale – tema di cui si è in parte già discusso, ma che tornerà in auge, più avanti – è una delle colonne portanti dell’odio antiebraico di matrice cristiana.
Per comprenderne l’impatto, è sufficiente dire che la teoria del deicidio sarebbe stata poi approvata da Costantino [40], legislatore del concilio di Nicea (325), nel quale si stabilirono i primi dogmi fondamentali della religione cristiana[41].
Immagine in evidenza: Ponzio Pilato si lava le mani’. Olio su tela attribuito a Gian Giacomo Manecchia. 1640-1660 circa. Collezione privata. [Foto: Pubblico Dominio]
Note:
[1] Tosefta Shabbat 13,5; Hullin 2,22-23; 2,24. S.J.D. COHEN, Dai Maccabei alla Mishnah, pp. 344-352, 364.
[2] Epistola ai Magnesii 103; Epistola ai Filadelfesi 6,1.
[3] J. MAIER, Storia del giudaismo nell’antichità, p. 130.
[4] Ivi, pp. 155-156.
[5] H. NAJMAN, The Writings and Reception of Philo of Alexandria, in Christianity in Jewish Terms, Boulder 2000, pp. 99-106; D. RUNIA, Philo and the Early Christian Fathers, in Cambridge Companion to Philo, Cambridge 2009, pp. 210-230; A. KAMESAR, Biblical Interpretation in Philo, in ibidem, pp. 65-94.
[6] Lettera di Barnaba 3,1. Sulla comprensione delle Scritture cf. 2,7; 3,6; 8,7; 10,12.
[7] Dialogo con Trifone, G. VISONÀ, (a cura di), Milano 1988.
[8] Su questo tema, cf. R. DIPROSE, Effetti della teologia della sostituzione, Padova 2008; Id., Israele sotto la Chiesa. Storia della teologia della sostituzione, Firenze 2015; i contributi in Israele e Chiesa nel Vangelo di Giovanni. Compimento, reinterpretazione, sostituzione?, M. MARCHESELLI (a cura di), Bologna 2016; D.C. WHITE, La teologia della sostituzione: origine, storia e dottrina, S. GIOVANNINI (a cura di), Padova 2004; J. M. LUSTIGER, The Promise, Grand Rapids 2007; D. NOVAK, Jewish-Christian Dialogue, A Jewish Justification, New York-Oxford 1989, pp. 3-25; R. K. SOULEN, The God of Israel and Christian Theology, Minneapolis 1996, pp. 25-51; C. THOMA, A Christian Theology of Judaism, New York 1980, pp. 23-30.
[9] E. BENAMOZEGH, L’origine dei dogmi cristiani, Genova 2002, p. 74.
[10] Cf. Mt 27,25 («Il suo sangue ricada sopra noi e sopra i nostri figli»). Appare chiaro che si tratta di una lettura erronea e tardiva che non tiene conto del contesto culturale di origine: tanto gli scritti del cosiddetto Antico Testamento, quanto quelli del Nuovo, infatti, concordano nel definire il sangue elemento indispensabile per il sacrificio animale nel culto mosaico, cf. Lv 5,21; 7,11-15; 16; 22,29; Gdc 6, 19; 13,19; 2Re 12,17. Levitico spiega che «La vita dell’essere vivente è nel sangue. Perciò vi ho ordinato di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite. Il sangue, infatti, in quanto è vita, espia» (Lv 17, 11-13). Vedi anche lettera agli Ebrei, 9,22: «Senza effusione di sangue, non avviene la remissione». Sembra ovvio come l’evangelista Matteo non stia, in realtà, accusando il popolo ebraico (lui stesso era ebreo), ma sta invece alludendo alla dimensione sacrificale del Messia, che la teologia paolina non casualmente identifica nell’agnus Dei (cf. 1Cor 5,7; Gv 1,29.36; Ap 5,6; 21,22-23) sacrificato in occasione della Pasqua (vedi korban Pesah). In altri testi, come l’Epistola di Barnaba, l’autore paragona il sacrificio di Gesù all’olocausto della giovenca rossa prescritto in Nm 19, 1-22, che serviva per la purificazione. La richiesta di Matteo, che mette in bocca alla folla parole apparentemente inusuali, sottolinea in realtà, la volontà e la necessità di un’espiazione generale (tiqqun ha-olam).
[11] Sulla Pasqua, 72-99.
[12] Cf. Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,20-26. Gesù risponde: «Restituite a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio!». Il testo greco non dice date ma restituite, termine che trova maggior corrispondenza nella retroversione in lingua ebraica. Gesù, quindi, intende dire: restituite all’imperatore il suo argento, che per il diritto romano è sua proprietà, non rifiutatevi soltanto di pagare il tributo all’imperatore, ma rifiutatevi di accettare le sue monete, che sono contro la Torah [contro il comandamento che proibisce immagini], purificatevi restituendogli il suo denaro ed emancipandovi da lui, affinché possiate tornare a dare a Dio quel che è di Dio. LAPIDE, Predicava nelle loro sinagoghe, Brescia 2001, pp. 44-65.
[13] Mi riferisco ai privilegia concessi da Cesare alle comunità ebraiche poste sotto l’egemonia della Repubblica romana, mirati a tutelare la presenza ebraica e gli usi giudaici. Cf. A.I., XIV, 213-216. A.I., XVI, 160-173; Legatio ad Gaium, 158. A metà del I secolo e.v., il diritto della Comunità ebraica di Alessandra a costituire un politeuma (un ente autonomo riconosciuto dallo stato) era stato messo a repentaglio in seguito agli attacchi portati avanti dagli ellenisti; in principio, la situazione fu prontamente normalizzata dall’imperatore Claudio, ma sessant’anni più tardi il contrasto sfociò nella seconda rivolta giudaica (115-117 ev). Cf. Lettera agli Alessandrini (Papiro di Londra VI, 1912, col. V, rr. 73-100); FILONE, In Flaccum, 55. Sul significato del termine politeuma COHEN, S.J.D., Dai Maccabei alla Mishnah, pp. 162-165; sulla seconda rivolta giudaica, J. MAIER, Storia del giudaismo nell’antichità, pp. 128-136.
[14] Sull’ordinamento giuridico romano in Giudea cf. J. JUSTER, Les Juifs dans l’Empire Romain, Parigi 1914; A. MOMIGLIANO, Ricerche sull’organizzazione della Giudea sotto il dominio romano (63 a.C. – 70 d.C.), in “Ann. R. Scuola Norm. Sup. Pisa”, Cl. St. e Fil., (3), 1934, pp. 183-221, 347-396; D. PIATTELLI, Ricerche intorno alle relazioni politiche tra Roma e l’“ethos ton Ioudaion” dal 161 a.C. al 4 a.C., in “BIDR”, (74), 1971, pp. 219-340; A. M. RABELLO, The Legal condition of the Jews in the Roman Empire, in “ANRW” (II/13), 1980, pp. 662-762, 711ss; Id, Giustiniano, Ebrei e samaritani alla luce delle fonti storico-letterarie, ecclesiastiche e giuridiche, 2 voll., Milano 1987-88, II, pp. 659ss; Id, La Giurisdizione Civile nella Iudaea romana fra il 63 a.E.V. ed il 70 E.V., in “Zakhor” 2, (1998), pp. 9ss.
[15] L’esistenza di una vera e propria teologia dell’evangelo imperiale in cui Augusto è indicato come Soter, Salvatore, oltreché attestata nell’iscrizione di Priene del 9 a.e.v. (Orientis graeci inscriptiones selectae [OGIS] 458, in part. r. 41), coincide con il processo di stesura dell’Eneide di Virgilio, un’opera il cui intento è proprio celebrare «gli antenati di Augusto» al fine di collegarlo ad un’ascendenza divina. G.B. CONTE, Profilo storico della letteratura latina. Dalle origini alla tarda età imperiale, Varese 2011, pp. 125-131. Arnaldo Marcone, che ha definito il linguaggio del culto imperiale addirittura «messianico» (A. MARCONE, Augusto. Il fondatore dell’Impero che cambiò la storia di Roma e del mondo, Roma 2015, pp. 112-119, 112), ha rilevato che l’operazione di propaganda messa in moto da Augusto «è uno dei temi forti dell’ideologia augustea». A. MARCONE, Augusto, cit. p. 335 n. 16. Cf. anche L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, Roma 2016; S. MAZZARINO, Trattato di storia romana, II, L’Impero Romano, Roma 1956, pp. 100-110; M. PANI, Augusto e il Principato, Bologna 2013, pp. 138-139.
[16] Con la rivolta maccabaica del 166-163, aveva avuto inizio un’era di indipendenza, denominata periodo «maccabaico e asmonaico», conclusasi, un secolo più tardi, con la conquista di Gerusalemme da parte di Pompeo (63 aev). Cf. A.I., 14, 3, 4.; B.I., 1,8; TACITO, Historiae V, 9; FILONE, Legatio ad Gaium, 155 (sugli schiavi portati dalla Giudea a Roma); tra gli studi vedi L. MAZZINGHI, La storia d’Israele dalle origini al periodo romano, Bologna 2007, in part. pp. 126-128.
[17] Sul messianismo nella tradizione ebraica, cf. G. SCHOLEM, L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, Azzate 2008, in part. pp. 14-25.
[18] Simone, che Luca denomina apertamente come zelota (Atti 1,13), Giuda Iscariota – il cui cognome è una storpiatura aramaica di sicarius – Bar Jona, il cui soprannome potrebbe essere sinonimo di ribelle o bandito, i due figli di Zebedeo detti i figli del tuono (Lc 9,54), sono solo alcuni esempi dei possibili contatti, storicamente evidenti, tra Gesù e gli attivisti militanti di Israele dell’epoca.
[19] Lc 9,54; 22,37; 22,49. Gesù sperava di salvare il suo popolo dal giogo romano, non con la guerra né con la diserzione, ma con una resistenza attiva, non violenta, un mix di etica e diplomazia, che rievocava la teopolitica passiva di Isaia, cf. Is 7,4. Il contenuto profetico della predicazione di Gesù era un serissimo richiamo alla realtà dello ius gladi romano (Mt 26,51-52; Mc 14,47; Lc 22,50-51; Gv 18,10-11), con cui intendeva mettere in guardia il suo popolo dalle ripercussioni che una rivolta armata avrebbe avuto sulla storia e il destino di Israele (cf. Mt 24,15; Lc 22, 38;). P. LAPIDE, Predicava nelle loro sinagoghe, pp. 59-65.
[20] Mt 10,34-39. Vedi anche Mc 8,34; Mt 16,24; Lc 9,23; 14,27.
[21] Su questo argomento, cf. B. FABBRINI, I capi dei sacerdoti e tutto il Sinedrio cercavano una falsa testimonianza (Matth. 26,59): le accuse e le prove, in Il processo contro Gesù, F. AMARELLI, F. LUCREZI (a cura di), Napoli 1999, pp. 151-196; M. HOOKER, The Son of Man in Mark, pp. 104-105; J. MARCUS, Mark 14:61: “Are You the Messiah-Son-of-God?”, in “NT”, 31/2, (1989), p. 139.
[22] Gv 11,50; 18,14.
[23] Cf. Lc 23,2: «Abbiamo trovato costui che incitava la nostra gente alla rivolta, proibiva di pagare il tributo a Cesare e affermava di essere il Cristo re».
[24] Gv 18,12-40.
[25] Mc 14,61-62; Mt 26,63-66; Lc 22,67-71.
[26] Gv 18,36. Lapide ha notato che in greco quest’espressione può anche suonare come un invito alla «fuga dal mondo» ma che, ritradotta in ebraico, significherebbe l’esatto contrario. Gesù sta affermando che il suo regno è di provenienza celeste e di origine divina: è, quindi, la più chiara antitesi all’Impero romano degli idolatri («la potenza delle tenebre», cf. Lc 22,53; Col 1,13). Con la frase «il mio regno non è di questo mondo», Gesù intendeva dire che il suo regno sarebbe presto sceso in terra, per prendervi il posto di tutto l’orrore del dominio dei gentili e consegnare finalmente a Dio il dominio esclusivo, così come era stato previsto dal profeta Daniele (Dn 7,13-14). Cf. P. LAPIDE, Predicava nelle loro sinagoghe, pp. 54-55.
[27] In caso di bestemmia, la legge mosaica imponeva la lapidazione (Lv 24,15-16). A subire questa sorte sarebbe stato, pochi anni dopo la morte di Gesù, Stefano, uno dei primi diaconi scelti dalla comunità giudeocristiana. Anche in questo caso però, non si trattò di un vero processo, bensì di un linciaggio avvenuto per mano di fanatici fondamentalisti (At 6-7).
[28] In merito ai responsabili della morte di Gesù, gli studiosi hanno fatto notare che l’evangelista Giovanni si riferisce indistintamente ai «giudei» (Gv 5,16-18), descritti come un blocco unico contrapposto alla missione cristiana. Diversamente, Marco, Matteo e Luca, parlano indicando specificamente erodiani, scribi o farisei a seconda delle circostanze (cf. Mc 3,6; 12,13; Mt 12,14; 16,1; 22,16; 27,62; Lc 6,7). In occasione dell’arresto degli apostoli si parla chiaramente di sadducei (At 4,1; 5,17): tutto ciò dimostra, indirettamente, come la narrazione dei sinottici e degli Atti degli apostoli sia stata ideata all’interno di un contesto ancora ebraico. La ragione di questa differenza sostanziale tra vangeli sinottici, Atti e il quarto vangelo canonico è da attribuirsi alla tardiva redazione di quest’ultimo, avvenuta dopo il 90 e.v., in un contesto teologico in cui si andava delineando la rivalità tra giudei non cristiani e giudeocristiani. I sadducei, nel frattempo, in seguito alla distruzione del Tempio, si erano estinti ed erano confluiti nel giudeocristianesimo o nel farisaismo. Cf. G. STEMBERGER, Farisei, sadducei, esseni, pp. 37-41, 48-50.
[29] Su questo argomento cf., M. GRILLI, Vangeli sinottici e Atti degli apostoli, pp. 36-37, 115-161, 193-195, 218-227, 276-283.
[30] J. ISAAC, The teaching of Contempt: Christian roots of Anti-semitism, New York-Chicago-San Francisco 1964, pp. 132-136; H. COHN, The Trial and Death of Jesus, New York 1977; F. MILLAR, Reflections on the Trial of Jesus, in A Tribute to Geza Vermes. Essays on Jewish and Christian Literature and History, P. R. DAVIES, P. T. WHITE (a cura di), Sheffield 1990, pp. 355-381.
[31] Mt 27, 24-26. Cf. anche Divina Commedia, Inferno, III, 60.
[32] A.I. 18, 3, 55-56.
[33] A.I. 18, 3, 55-62
[34] A.I. 18, 8, 257-288.
[35] Legatio ad Gaium, 299-305.
[36] Lc 13,1.
[37] Gv 18,33-40. Cf. anche Mc 15,2; Mt 27,11; Lc 23,3.
[38] In At 5,36-37 si fa menzione di due rivolte condotte prima da un certo Teuda e poi da Giuda il Galileo, entrambe brutalmente represse dai romani.
[39] Cf. I vangeli apocrifi, M. CRAVERI (a cura di), p. XXIX, 290, 291-297.
[40] A Costantino sembrava «una cosa indegna che nella celebrazione di questa santissima festa [la Pasqua]» si dovesse seguire la pratica dei Giudei, «che hanno insozzato le loro mani con un peccato enorme e sono stati giustamente puniti con la cecità delle loro anime…. È bene non avere nulla in comune con la detestabile cricca dei Giudei; in quanto abbiamo ricevuto dal Salvatore una parte diversa». EUSEBIO DI CESAREA, Vita di Costantino, III, 18, 4.
[41] Su questo argomento cf. D. BOYARIN, Il vangelo ebraico, pp. 32-37; G. JOSSA, Dalle origini al Concilio di Nicea, in Cristianesimo, G. FILORAMO (a cura di), Bari-Roma 2000, pp. 3-53; P. VEYNE, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Varese 2008, pp. 93-95, 121-136.
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