La storia della dattiloscopia
Abstract: La dattiloscopia forense può essere definita come la scienza che analizza e interpreta le impronte digitali di un individuo. Esiste UNA possibilità su 64 miliardi che un’impronta digitale corrisponda esattamente a quella di qualcun altro. Questo vuol dire che siamo di fronte a un’identificazione certa del soggetto perché non esistono due persone dotate della stessa impronta. Nemmeno i gemelli si sottraggono a questa legge biologica a differenza della comparazione del DNA. Silvestro Marascio, maresciallo del RIS dei Carabinieri e criminalista illustra assieme a Nicola Caprioli, criminalista, esperto nella raccolta di tracce e nell’analisi delle macchie di sangue spiegano l’evoluzione di questa scienza.
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ANALISI DELLE IMPRONTE PAPILLARI, TRA STORIA E CRONACA-Parte 2
PREMESSA
Lo studio di caratteristiche biometriche, volte all’identificazione personale, non è assolutamente elemento della storia recente ma è, invece, contemporanea la continua ricerca di nuovi strumenti per poter sfruttare appieno il patrimonio informativo offerto dal soma dell’individuo.[1] Circa quest’ultimo punto, facendo un rapido connubio tra biometria comportamentale e fisica, basta pensare alla grafometria, al facilitato approccio allo studio dei connotati del viso – facial recognition – offerto sia dall’utilizzo dei social network che da un rinnovato interesse della tecnologia verso il riconoscimento de visu. Tecnologia che può aiutare anche nell’individuazione di un soggetto attraverso l’andatura del suo passo, catturata da un occhio elettronico presente sulla pubblica via o all’interno di determinati locali,[2] ovvero oggetto, la medesima andatura, magari in un momento successivo, a esperimento giudiziale. Come appena visto, le trame di questo testo cominciano a infittirsi, spaziando dall’elemento storico a quello tecnico fino a giungere al concreto svilupparsi di un iter processual-penalistico, in questo caso con un rimando veloce a uno dei mezzi di prova previsti dal codice vigente, l’esperimento, appunto, che con gli istituti della consulenza tecnica (che può essere endo ed extra procedimentale) e la perizia, rappresentano sicuramente gli elementi cardini tra universi complementari: quello scientifico e quello forense.
LE ORIGINI DELLE IMPRONTE PAPILLARI
L’importanza delle impronte papillari, per fini correlati a indagini di polizia giudiziaria, e quindi alla repressione di reati nonché all’identificazione per motivi di sicurezza pubblica, viene registrata nel 1880, grazie a uno scritto pubblicato su Nature. “… Qualora si disponga di impronte di dita nel sangue o su creta, vetro…queste potrebbero condurre alla identificazione scientifica dei criminali…”,[3] così scriveva Henry Faulds – medico missionario a Tokyo – in una sua lettera a Nature, descrivendo la nascita della moderna dattiloscopia giudiziaria e cioè della possibilità di comparare frammenti dattiloscopici ritrovati sulla scena del crimine con le impronte papillari di potenziali sospettati.
Gli studi portati avanti hanno definito, nel corso degli anni, le caratteristiche proprie delle impronte ma, più in generale, esse potrebbero essere facilmente associate a un qualunque dato biometrico: immutabilità, classificabilità e individualità.
Il dato d’interesse per essere sicuramente riferito a un individuo deve garantire, infatti, la sua immutabilità nel tempo. Le impronte papillari (intendendo le digitali ma anche le plantari e le palmari) si originano verso il terzo mese di vita intrauterina e sopravvivono alla morte della persona, anche dopo svariati anni dall’evento e, ovviamente, la loro conservazione dipenderà dalle condizioni generali di quella salma e da una serie di altre variabili che saranno a breve oggetto d’intervento. Continuando, altra caratteristica è l’individualità, in questo caso è possibile osservare come la medesima sia strettamente correlata a quel concetto di “classificabilità” delle impronte, che poi di fatto ne rappresenta una ulteriore caratteristica. Per dirimere questo intreccio però occorre fare un passo indietro: Francia, seconda metà del 1800, Alphonse Bertillon ha appena ideato un complesso sistema di rilevazione dei dati antroposomatici degli individui che vengono sottoposti a fermo/arresto da parte delle forze dell’ordine, l’obiettivo è l’identificazione del recidivo a prescindere dall’anagrafica declinata dallo stesso.
I rilievi furono complessi, 11 differenti misurazioni corporee: ne scaturì il momento più alto di quella scuola positivista che tanto caratterizzerà gli antipodi della criminologia. Il problema che si riscontrò, con l’applicazione del c.d. Bertillonage, fu di due ordini differenti: l’uno burocratico e quindi di archivio, bene lo standardizzare il “cosa” verificare ma purtroppo il “come” porlo in essere divenne un problema per i vari uffici di Polizia, l’altro di opportunità, in funzione di una osteobiografia fortemente variabile a carico dell’indagato, sovente un minore e quindi con una maturazione scheletrica ancora in fieri. Si comprenderà come la combinazione tra i due termini appena descritti porti alla ricerca di metodologie alternative o quantomeno integrative a quel segnalamento antropometrico, descrittivo e fotografico.
Quasi contemporaneamente al metodo di Bertillon si sviluppò, grazie all’opera di Francis Galton (fingerprints, pubblicato nel 1892, e fingerprints directories, 1895), di Vucetich e di Richard Henry, l’utilizzo identificativo delle impronte, arrivando a dimostrare l’immutabilità del disegno dermico nel tempo, la loro individualità e classificabilità, riconducendo le impronte a delle figure fondamentali, adelta, monodelta e composte, in funzione della presenza di punti focali, come il centro di figura e il delta, appunto, e di sistemi di linea (marginale, centrale e basale) componenti quello stesso disegno dermico.
L’individualità viene poi meglio caratterizzata da un connubio offerto dalla classifica stessa, quindi dalla tipologia di figura in esame, seguendo verso un c.d. “secondo livello”, osservando l’andamento delle linee papillari nel loro naturale decorso, allorquando le stesse biforcano, splittando e quindi originando un particolare contrassegno, oppure quando una cresta s’interrompe, ecco un altro punto caratteristico che renderà unico quel tracciato.
Un ultimo step per quella individualità propugnata può essere offerto dalla crestologia, ossia dalla particolare conformazione assunta dalle linee papillari oppure dalla poroscopia, lo studio della posizione dei pori sudoripari distribuiti lungo la cresta cutanea. Dagli schedari cartacei, seguendo le indicazioni di Gasti (ideatore del sistema di classificazione delle impronte in Italia), con serie, sezione e numero, si è giunti, a ridosso del 2000, a un’archiviazione in database telematici che ricomprendono: i fotosegnalamenti effettuati da tutte le forze di polizia nazionali, significando le impronte assunte, i dati anagrafici rilevati e le fotografie effigianti il soggetto; i frammenti d’impronta individuate e repertate su scene del reato, ancora non riconducibili ad alcuno.
Il database – l’AFIS – consente di ricostruire la catena dei rilievi precedentemente effettuati al medesimo individuo, permette quindi di asseverare la sua identificazione fisica, prescindendo dagli alias declinati (identità artefatte), giusta applicazione dell’art. 66 c.p.p. vigente; permette anche la generazione di files utilizzabili per la cooperazione internazionale di polizia, rappresentando un ideale continuum rispetto allo storico Jorgensen Classification System[4] (al netto dell’adesione dell’Italia al trattato di Prum del 2009); infine il database consente di attribuire frammenti altrimenti ignoti, come detto poc’anzi, repertate nel contesto di sopralluogo. Il match positivo si potrebbe avere a seguito del lancio del frammento in parola sui cartellini segnaletici già presenti in banca dati, quindi riconducibili a una certa anagrafica; evidentemente il cartellino sarà stato generato in occasione di identificazione per motivi di polizia amministrativa, spaziando dal Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza a quello dell’immigrazione, o di polizia giudiziaria, tipizzato dall’art. 349 c.p.p. ovvero dal fatto reato eventualmente contestato, il quale, a sua volta, potrebbe comportare una misura precautelare (arresto o fermo di indiziato di delitto) oppure una denuncia a piede libero di quell’individuo (come ancora più puntualmente dettata dalla c.d. “riforma Cartabia”).
NOTE
[1] Tra questi: autenticazione accessi (tra gli altri accessi a locali, autovetture o smartphone); sicurezza delle transazioni finanziarie; prevenzione delle frodi; sicurezza e identificazione di polizia.
[2] A titolo esemplificativo, nel processo penale sono utilizzabili – ancorché imputato sia il lavoratore subordinato – i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro (Cass. VI sez. civ. ord. n. 1727/21).
[3] Beavan C., Impronte digitali, ed. Mondadori, 2002.
[4] Trasmissione delle informazioni dattiloscopiche a mezzo telegrafo o telefono: Jorgensen, Hakon, Distant Identification and One- finger Registration. Publications of International Police Conference, Police Department, New York, 1923.
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