Configurabilità della violazione tra la sanzione penale e l’illecito amministrativo
Abstract: I giudici della Corte Costituzionale con la sentenza n. 211 del 17 ottobre 2022 hanno ritenuto legittima la scelta del legislatore di non trasformare in illecito amministrativo il reato punito dall’art. 73 cod. antimafia.
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La vicenda
Con due ordinanze di contenuto sostanzialmente identico, la Corte di cassazione, Sezione Sesta penale, e il Tribunale ordinario di Ravenna sollevavano, in riferimento agli artt. 25, comma 2, 3 e 27, comma 3, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. “codice antimafia”), che punisce con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni la guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, commessa da persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale, nella parte in cui il legislatore non ha trasformato in illecito amministrativo – come disposto invece dall’art. 1 del D.Lgs. n. 8/2016, in relazione alla fattispecie di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, la fattispecie disciplinata dalla norma censurata.
Secondo i rimettenti la disposizione in esame violerebbe l’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo del principio di offensività, in quanto essa, richiedendo nella fattispecie incriminatrice la qualità personale del soggetto, in assenza di un collegamento materiale tra l’essere stato sottoposto a una misura di prevenzione personale e la condotta di guida senza patente, attribuirebbe alla contravvenzione i tratti del cosiddetto reato d’autore.
Sarebbe inoltre violato, ad avviso dei giudici a quibus, anche l’art. 3 Cost., perché la disposizione censurata determinerebbe un trattamento differenziato della persona sottoposta a una misura di prevenzione personale non solo rispetto agli altri cittadini, ma anche con riguardo alle persone che risultino pregiudicate, pure per gravi reati, nei cui confronti la condotta di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, non è più prevista dalla legge come reato, per effetto dell’art. 1 del D.Lgs. n. 8/2016 che l’ha trasformata in illecito amministrativo. Da ultimo, sarebbe violata la finalità rieducativa che l’art. 27, terzo comma, Cost. assegna alla pena.
La decisione
Dopo essersi soffermata sul quadro normativo e giurisprudenziale nel cui contesto si collocano le condotte di guida in assenza della patente, regolate sia dalle norme sulla disciplina della circolazione stradale, sia dalle disposizioni sul contrasto al fenomeno criminale mafioso, la Corte ha dichiarato l’infondatezza delle questioni sollevata, escludendo la violazione dell’art. 25, comma 2, Cost., sotto il profilo del mancato rispetto del principio di offensività.
La Corte ha preso le mosse dal proprio costante orientamento, secondo cui il principio di offensività opera su due piani distinti: da un lato, come precetto rivolto al legislatore, diretto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività «in astratto»); dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività «in concreto»).
In relazione al primo aspetto, la Corte ha ricordato che rientra nella discrezionalità del legislatore la scelta per forme di tutela anticipata, che colpiscano l’aggressione ai beni giuridici protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva; in tale prospettiva, “non è precluso, di norma, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto” – modello cui si inscrive la previsione di cui all’art. 73 cod. antimafia -, a condizione, però, che “la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit“. Inoltre, ha chiarito che, anche nella sua configurazione come fattispecie di pericolo, il principio di offensività del reato “postula che le qualità personali dei soggetti o i comportamenti pregressi degli stessi non possono giustificare disposizioni che attribuiscano rilevanza penale a condizioni soggettive, salvo che tale trattamento specifico e differenziato rispetto ad altre persone non risponda alla necessità di preservare altri interessi meritevoli di tutela”. Il che significa che non è “compatibile con il principio di offensività l’incriminazione di un mero status, anziché di una condotta, pur potendo rilevare, nei reati propri, la condizione soggettiva dell’autore”.
In casi del genere, peraltro, occorre scrutinare i profili di ragionevolezza di tale condizione oggettiva; a tal proposito ha richiamato sia la sentenza Corte cost. n. 14/1971, la quale nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 707 c.p., limitatamente alla parte in cui, prevedendo come reato il possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, poneva, come presupposto dello stesso, le condizioni personali di condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta; sia la sentenza Corte cost. n. 370/1996, la quale ha ritenuto che anche la condizione soggettiva di chi era stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, mostrasse l’irragionevolezza di tale presupposto riferito a una sola categoria di persone; condizione soggettiva che, invece, con riferimento alla (residua) fattispecie dell’art. 707 c.p., è stata ritenuta non delineare una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva dei principi di offensività.
Ciò chiarito la Corte ha escluso che nella fattispecie sottoposta a scrutinio sia ravvisabile una ipotesi di “responsabilità penale d’autore”. Le misure di prevenzione personale, infatti, “presuppongono la riconducibilità della persona ad una delle categorie di destinatari previste dal codice antimafia, l’attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura e la pericolosità sociale effettiva della persona per la sicurezza pubblica”; e l’applicazione di tali misure persegue lo specifico obiettivo “di garantire l’attuazione della necessaria vigilanza da parte degli organi di pubblica sicurezza, anche attraverso la previsione di limitazioni della libertà di circolazione” Del resto, “non ogni inadempimento di obblighi generici e indeterminati può essere posto a carico dei destinatari delle misure di prevenzione, ma soltanto quello che si sostanzia in violazioni di specifiche prescrizioni finalizzate alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza; prescrizioni che, nella fattispecie oggetto delle censure di illegittimità costituzionale in esame, sono riconducibili all’art. 120 cod. strada”, a tenore del quale non possono conseguire la patente di guida coloro che sono, o sono stati, sottoposti alle misure di prevenzione previste dalla L. n. 1423/1956 (con la sola eccezione di quella di cui all’art. 2) e dalla L. n. 575/1965.
Orbene, proprio in virtù dell’espresso riferimento a coloro che sono sottoposti alle misure di prevenzione previste dalla menzionata L. n. 1423/1956, la norma contenuta nell’art. 120 cod. strada, che stabilisce i requisiti per il rilascio ed il permanere del titolo abilitativo, “integra il necessario presupposto normativo della fattispecie incriminatrice censurata, che trova la sua ratio nella violazione della regola posta dalla disposizione del codice della strada”.
Di qui la logica conclusione: “la perdurante rilevanza penale della condotta di guida in assenza del titolo abilitativo, invece depenalizzata per coloro che non sono sottoposti a misure di prevenzione (salva l’ipotesi della ‘recidiva’ nell’illecito amministrativo che rimane reato), si ricollega alla violazione di una regola specifica, qual è quella desumibile dall’art. 120 cod. strada, e non semplicemente al generico obbligo di ‘vivere onestamente’ e di ‘rispettare le leggi’” (Corte cost. sent. n. 25/2019).
Alla luce di ciò, la scelta del legislatore non viola il principio di offensività: la violazione della regola, che vieta di guidare autoveicoli e motoveicoli senza patente al soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale, infatti, “è espressione di una valutazione discrezionale del legislatore, il quale ha ritenuto sussistere un quid pluris di pericolosità per il fatto che colui che sia sottoposto con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale possa circolare alla guida di un veicolo“.
La Corte ha preso atto che è trascorso molto tempo da quando la fattispecie in esame è stata prevista come reato e che nell’attuale contesto storico “di generale accresciuta possibilità di mobilità con i mezzi di trasporto più vari, appare meno evidente la pericolosità specifica della persona sottoposta a misura di prevenzione personale che si ponga alla guida di un veicolo senza il titolo abilitante”; la patente di guida, inoltre, può costituire un necessario presupposto per svolgere un’attività lavorativa. La Corte ha peraltro evidenziato che tale pericolosità specifica, connessa alla guida di veicoli da parte di chi è assoggettato a misura personale di prevenzione, è oggi meglio calibrata, per effetto della sentenza Corte cost. n. 99/2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2, cod. strada nella parte in cui dispone che il prefetto «provvede», invece che «può provvedere», alla revoca della patente di guida nei confronti dei soggetti che sono, o sono stati, sottoposti a misure di prevenzione. Di conseguenza, nell’ipotesi della revoca della patente in ragione dell’applicazione della misura di prevenzione personale, sussiste “un momento di valutazione in concreto, caso per caso, della pericolosità specifica dell’interessato, che peraltro si accompagna anche alla giustiziabilità della valutazione prefettizia”.
In conclusione, la Corte ha evidenziato che nel prevedere un trattamento sanzionatorio più severo, rispetto a quello della disposizione di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, la disposizione censurata “è finalizzata a tutelare l’ordine pubblico, potenzialmente posto in pericolo nelle ipotesi in cui sia violata la disposizione di cui all’art. 120 cod. strada, cui è ricollegata la necessità di porre limitazioni agli spostamenti, di impedire o ostacolare la perpetrazione di attività illecite e di rendere meno agevole il sottrarsi ai controlli dell’autorità nei confronti di soggetti pericolosi”.
Da tali considerazioni deriva, per logica consequenzialità, anche la non fondatezza della ulteriore questione riferita alla violazione dell’art. 3 Cost., non potendo definirsi irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una differente risposta punitiva per la condotta di guida senza patente prevista, da un lato, per i soggetti non colpiti da misure di prevenzione personali, e dall’altro, per coloro che a causa dell’accertata pericolosità vi siano sottoposti, trattandosi di “un legittimo inasprimento della risposta punitiva in relazione al differente disvalore della condotta e alla diversa intensità dell’offesa ai beni protetti”. Allo stesso modo, è stata esclusa la violazione del principio della finalità rieducativa della pena, in quanto, per un verso gli indicati elementi differenziali tra le fattispecie poste a confronto escludono che la norma censurata preveda un trattamento sproporzionato se comparato con la sanzione solo amministrativa contemplata per la stessa condotta, posta in essere da chi non è assoggettato a misure di prevenzione personali; per altro verso, come detto, la pericolosità specifica della condotta della persona sottoposta alla misura di prevenzione personale, già in possesso del titolo abilitante alla conduzione di veicoli, “richiede che sia valutata dal prefetto prima di revocare la patente di guida”.
Corte Costituzionale, sentenza n. 211 del 17 ottobre 2021
RITENUTO IN FATTO
1.– Con ordinanza del 10 settembre 2021 (r. o. n. 184 del 2021), la Corte di cassazione, sezione sesta penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), che punisce con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni la guida di un autoveicolo o motoveicolo senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, commessa da persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale.
1.1.– La Corte di cassazione premette di dover decidere il ricorso proposto da L. P., avverso la sentenza del 9 giugno del 2020 adottata dalla Corte d’appello di Palermo che, in accoglimento dell’impugnazione del Procuratore generale, ha dichiarato l’imputato colpevole del reato di cui all’art. 73 cod. antimafia, condannandolo alla pena di sette mesi di arresto, di cui un mese a titolo di aumento per la continuazione con il reato di cui all’art. 650 del codice penale. In particolare, il Collegio rimettente riferisce che l’imputato, già sottoposto, con provvedimento definitivo, alla misura di prevenzione personale, in occasione di un controllo di polizia veniva trovato alla guida di un’autovettura privo di patente, perché revocata. Con riguardo ai motivi di ricorso, i giudici di legittimità danno atto che il ricorrente ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato. In particolare, la contravvenzione di cui all’art. 73 cod. antimafia, sostiene il ricorrente, sarebbe stata travolta dalla trasformazione in illecito amministrativo, ad opera dell’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), della contravvenzione di cui all’art. 116, comma 15, primo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e, dunque, sarebbe stata tacitamente abrogata. Pertanto, oggi costituirebbe reato solo la fattispecie di guida senza patente in caso di recidiva nel biennio (secondo periodo del citato art. 116, comma 15), nella specie insussistente e non contestata all’imputato.
1.2.– Ciò precisato, la Corte rimettente osserva come la sussistenza della fattispecie incriminatrice non sia in discussione, dal momento che, nel caso di specie, l’infrazione consistente nella guida senza patente perché revocata è stata commessa da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno. Premettendo di condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la depenalizzazione ad opera del d.lgs. n. 8 del 2016 del reato di guida senza patente, di cui all’art. 116 cod. strada, non ha riguardato anche la fattispecie di cui all’art. 73 cod. antimafia, la Corte rimettente osserva che commette il reato di guida senza patente soltanto la persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale. Invece, la conduzione di veicoli senza aver conseguito la corrispondente patente di guida e la guida senza patente, perché revocata o non rinnovata per mancanza dei requisiti fisici e psichici (salvo il caso di recidiva nel biennio), non è più prevista dalla legge come reato, essendo divenuta illecito amministrativo punito con la sanzione amministrativa da 5.100 a 30.599 euro. Pertanto, osserva la Corte rimettente in punto di rilevanza, la disposizione censurata deve essere necessariamente applicata nel giudizio principale e, qualora le doglianze fossero ritenute fondate, discenderebbe un effetto corrispondente all’interesse del ricorrente, il quale sarebbe sottoposto ad una sanzione amministrativa e non a quella penale. Né, sulla scorta del descritto inquadramento e dell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla struttura del reato, risulta possibile una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata. Infine, non inciderebbe sulla rilevanza delle questioni la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2, cod. strada, contenuta nella sentenza di questa Corte n. 99 del 2020, in relazione all’automatismo della revoca della patente di guida nei confronti dei soggetti che sono o sono stati sottoposti a misura di prevenzione.
1.3.– Nel merito, ad avviso del giudice a quo, la disposizione incriminatrice violerebbe i principi costituzionali di legalità della pena e di orientamento della stessa all’emenda del condannato, ai quali, in base agli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., deve attenersi la legislazione penale, in relazione ai criteri di selezione della fattispecie incriminatrici e alla loro ragionevolezza (art. 3 Cost.). In primo luogo, la Corte di cassazione sottolinea come la persona non sottoposta con provvedimento definitivo a una misura di prevenzione personale risponde per il medesimo comportamento soltanto a titolo di illecito amministrativo, anche se, ad esempio, risulti pluripregiudicata per altri gravi reati. Inoltre, nell’ordinanza di rimessione si pone in evidenza che l’essere stato sottoposto con provvedimento definitivo a una misura di prevenzione personale, pur trattandosi di evenienza del tutto estranea al fatto-reato della guida senza patente, renderebbe punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assumerebbe, invece, alcun disvalore sul piano penale. La precedente sottoposizione a misura di prevenzione integrerebbe un elemento costitutivo del reato il quale, in tal modo, assume le sembianze di un marchio idoneo a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale. Ne consegue che la norma incriminatrice «finisce […] col punire non tanto la guida senza patente in sé, quanto una qualità personale del soggetto che dovesse incorrervi». In relazione a tale profilo sono richiamati i principi contenuti nella sentenza di questa Corte n. 354 del 2002, dichiarativa della illegittimità costituzionale dell’art. 688, secondo comma, cod. pen., che sanzionava il soggetto condannato per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale che fosse colto in luogo pubblico o aperto al pubblico in stato di manifesta ubriachezza. Ad avviso del rimettente, la contravvenzione di cui all’art. 73 cod. antimafia assumerebbe i tratti di un reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività che, nella sua accezione astratta, costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale; ed a tal riguardo è richiamata la pronuncia di questa Corte che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen. (sentenza n. 249 del 2010). Nell’ordinanza di rimessione si ricorda che la qualità di persona sottoposta a misura di prevenzione è riferibile a categorie di destinatari, elencate nello stesso art. 4 cod. antimafia (e progressivamente incrementate dalla legislazione successiva), molto variegate ed eterogenee; al punto che non è agevole identificarne un denominatore comune che rilevi come indice di pericolosità sociale e che pure incide, ad esempio, con riferimento alla diversa durata (da uno a cinque anni) e alla differente modulabilità della misura di prevenzione adottata dal tribunale (artt. 6 e 8 cod. antimafia). In relazione, poi, al principio di ragionevolezza, il giudice rimettente evidenzia che lo stesso elemento fattuale, ossia lo status di sottoposto ad una misura di prevenzione, è considerato dall’art. 71 cod. antimafia circostanza aggravante rispetto ad altri reati e, nel contempo, è configurato dalla disposizione censurata quale elemento costitutivo di una fattispecie di regola integrante un mero illecito amministrativo. Sotto un ulteriore profilo, la Corte rimettente osserva che la norma censurata «nel trasformare irragionevolmente in elementi costitutivi del reato fatti per i quali è stata applicata, in modo irrevocabile, una misura di prevenzione personale vanifica la finalità rieducativa che l’art. 27, terzo comma, della Costituzione assegna alla pena». In conclusione, prevedere come reato la violazione, da parte del sorvegliato speciale, «dell’obbligo di patente di guida, produce l’effetto abnorme di sanzionare come reato una violazione amministrativa che non trova giustificazione nell’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati – che è al fondo della ratio delle misure di prevenzione – esigenza che si raccorda alla tutela dell’ordine e della sicurezza come valore costituzionale».
2.– Con atto depositato il 21 dicembre 2021, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano rigettate in ragione della loro non fondatezza. In particolare, la difesa dello Stato richiama le sentenze di questa Corte n. 161 del 2009 e n. 282 del 2010, che hanno dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155. L’Avvocatura generale evidenzia come tale disposizione, che prevede un trattamento sanzionatorio più severo per il sorvegliato speciale con obbligo o divieto di soggiorno, rispetto a quello previsto per il sorvegliato speciale non gravato da tali obblighi (art. 9, comma l), non sia stata ritenuta incompatibile con i richiamati parametri costituzionali, sulla base della considerazione che «la pena prevista dalla norma denunziata riguarda soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee» e che l’esigenza di assicurare il fine di tutela preventiva mediante l’osservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione in discorso esclude la possibilità di ravvisare la sussistenza della denunciata violazione del principio di ragionevolezza. Secondo la difesa statale sarebbe possibile applicare la medesima ratio decidendi alle questioni di costituzionalità in esame. Inoltre, si osserva come non possa sfuggire la radicale diversità della fattispecie della guida senza patente, disciplinata dall’art. 116, comma 15, cod. strada, sanzionata solo in via amministrativa, applicabile a chiunque conduca veicoli senza aver conseguito l’abilitazione, rispetto a quella disciplinata dalla norma denunciata che riguarda solo quei soggetti ai quali, a seguito della sottoposizione a misura di prevenzione, la patente è stata negata, sospesa o revocata. La ratio della norma in questione sarebbe, quindi, costituita dall’esigenza di arginare la pericolosità sociale dei soggetti raggiunti da una misura di prevenzione mediante la previsione di una sanzione più grave rispetto a quella comminata a carico dei soggetti che conducano veicoli senza aver conseguito la patente. Pertanto, la diversità delle fattispecie poste a raffronto dal giudice a quo non consentirebbe di ravvisare alcuna disparità di trattamento, né la denunciata irragionevolezza. Né, ad avviso dell’Avvocatura generale, la qualità di soggetto sottoposto ad una misura di prevenzione può essere configurata come un «marchio» qualificativo della condotta, tale da integrare un’ipotesi di “responsabilità penale d’autore”, in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost.; tale qualità si atteggerebbe ad elemento costitutivo della condotta penalmente rilevante, non diversamente dalla qualifica di pubblico ufficiale in relazione al delitto di peculato. La norma denunciata non sarebbe, poi, in contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena, ai sensi dall’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto è prevista la possibilità per il sottoposto alla misura di prevenzione di rientrare in possesso della patente di guida, previo conseguimento della riabilitazione prevista dall’art. 70 cod. antimafia.
3.– Con ordinanza del 14 marzo 2022 (r. o. n. 45 del 2022), il Tribunale ordinario di Ravenna, sezione penale, in composizione monocratica, ha sollevato anch’esso, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73 cod. antimafia. Il giudice a quo premette di procedere, con rito abbreviato, nei confronti di M. P., imputato del reato di cui all’art. 73 cod. antimafia, perché, essendo sottoposto con provvedimento definitivo del questore alla misura di prevenzione dell’avviso orale, con i divieti aggiuntivi, di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, a seguito di un controllo di polizia stradale, veniva trovato alla guida di una autovettura senza essere munito della prescritta patente di guida perché mai conseguita. Il rimettente, dato atto che le evidenze processuali comprovano una condotta riconducibile a quella sanzionata dalla norma incriminatrice censurata, sottolinea l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la depenalizzazione del reato di guida senza patente di cui all’art. 116 cod. strada, operata dall’art. 1 del d.lgs. n. 8 del 2016, non ha interessato la fattispecie in esame. Secondo il giudice a quo, l’avviso orale con prescrizione dei divieti aggiuntivi è da ritenersi una misura di prevenzione personale, nella specie applicata dal questore, e in quanto tale suscettibile di integrare il presupposto della condotta incriminata. Tale conclusione sarebbe imposta dalla tassonomia introdotta dal citato decreto legislativo, recante il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, e dal chiaro tenore letterale del disposto dell’art. 73 cod. antimafia. L’avviso orale, sottolinea il rimettente, è stato validamente adottato perché fondato sulla ritenuta pericolosità sociale del soggetto, valutata con giudizio prognostico sulla base dei precedenti penali e di polizia per furto, di reati in materia di falso, estorsione, prostituzione, ricettazione, truffa e, ancora, sulla reiterazione di condotte antigiuridiche nonostante la sottoposizione a misure di custodia cautelare disposte dall’autorità giudiziaria. Secondo il rimettente, si tratta di elementi sufficienti non solo per giustificare il giudizio di pericolosità sociale, attuale e concreto, idoneo a inquadrare l’imputato in una delle categorie di cui all’art. 1 cod. antimafia, ma anche a giustificare l’applicazione degli specifici divieti, di cui all’art. 3, comma 4, del medesimo codice. In relazione a tali specifici profili, l’ordinanza precisa che il presupposto necessario per l’adozione dell’avviso orale, costituito dalla pericolosità per la sicurezza pubblica del soggetto destinatario, forma oggetto di un necessario giudizio prognostico fondato su valutazioni discrezionali dell’autorità amministrativa, che possono basarsi su presunzioni o indizi, desunti da comportamenti tali da assumere un significato di tendenziale pericolosità denotante una personalità incline a comportamenti antigiuridici e antisociali. Quanto, poi, all’applicazione dei divieti aggiuntivi di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, il rimettente evidenzia che, oltre al presupposto concernente la condanna per delitti non colposi, la specifica limitazione deve essere giustificata dalla necessità di prevenire la commissione di condotte illecite, con l’effetto che il giudizio prognostico legittimante l’applicazione di tali incisivi divieti deve essere giustificato da una motivazione specifica che tenga conto delle condizioni personali del destinatario della misura e che selezioni, nell’ambito dei vari ed eterogenei divieti contemplati dalla norma, quello più idoneo a tutelare la collettività.
3.1.– Fatta tale premessa, il rimettente ritiene che il giudizio a quo non possa essere definito in assenza della soluzione delle questioni di legittimità costituzionale in ordine alla qualificazione giuridica del fatto ascritto all’imputato; né, sulla scorta del descritto inquadramento e della interpretazione della giurisprudenza di legittimità sulla struttura del reato, è possibile fornire una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in esame.
3.2.– In punto di non manifesta infondatezza, ad avviso del rimettente, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, a seguito della depenalizzazione attuata con l’art. 1 del d.lgs. n. 8 del 2016, la condotta di cui all’art. 116, comma 15, cod. antimafia non è più prevista dalla legge come reato, perché trasformata in illecito amministrativo e punita con la sola sanzione amministrativa da 5.100 a 30.599 euro. Pertanto, l’essere stato sottoposto, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale, pur trattandosi di circostanza del tutto estranea al fatto-reato della guida senza patente, renderebbe punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto non assume, invece, alcun disvalore sul piano penale, salvo il caso di recidiva nel biennio. La norma incriminatrice, dunque, sarebbe viziata da irragionevolezza in quanto un medesimo fatto, la guida senza patente, rileverebbe sul piano penale soltanto per una particolare categoria di soggetti, ovvero coloro che sono sottoposti a una misura di prevenzione senza che emergano specifiche e pregnanti ragioni di tutela sociale; si tratterebbe, infatti, di un illecito comune, ex se non espressivo dell’ingravescenza delle esigenze di ordine e sicurezza pubblica sottese alla misura ante o praeter delictum, ma al più, sintomatico di un atteggiamento non rispettoso dell’obbligo di vivere onestamente e di osservare le leggi; obbligo ritenuto inidoneo a integrare la fattispecie penale. Sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, il rimettente osserva, poi, che il legislatore continua a prevedere come reato la sola condotta di guida di un autoveicolo da parte del soggetto sottoposto a misura di prevenzione, al quale, per tale sua condizione, la patente sia stata revocata o negata. La condotta di guida è stata invece trasformata in illecito amministrativo in relazione alle altre categorie di soggetti la cui condizione è ostativa al rilascio del titolo abilitativo alla guida, ai sensi dell’art. 120, comma 1 e 2, cod. strada (tra i quali vi sono i delinquenti abituali, professionali, o per tendenza e coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali, le persone condannate per i reati di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza», i destinatari dei divieti di cui ai successivi artt. 75, comma 1, lettera a, e 75-bis, comma 1, lettera f), la condotta di guida è stata trasformata in illecito amministrativo; con ciò ingenerando una irragionevole disparità di trattamento tra soggetti accomunati dalla sussistenza di una condizione ostativa che incide nel medesimo senso sulla titolarità della patente. L’irragionevolezza della disposizione, secondo il giudice a quo, risiederebbe anche nell’accomunare presupposti della condotta assai diversi; da un lato, l’ipotesi, come nel caso di specie, in cui la patente non sia mai stata conseguita per ragioni diverse dall’applicazione della misura di prevenzione; e dall’altro, le ipotesi in cui la patente sia stata «negata, sospesa o revocata» quale effetto dell’applicazione della misura di prevenzione personale; solo in relazione a tale ultimo caso, ad avviso del giudice a quo, l’incriminazione potrebbe trovare giustificazione nell’esigenza di presidiare l’effettività del regime interdittivo collegato all’applicazione della misura di prevenzione. Il rimettente evidenzia, ancora, che del tutto irragionevolmente lo stesso elemento fattuale, qual è lo status di sottoposto a misura di prevenzione, è considerato, dall’art. 71 cod. antimafia, circostanza aggravante rispetto ad altri reati, e dall’art. 73 del medesimo codice, elemento costitutivo di una fattispecie, di regola, integrante un illecito amministrativo. A parere del giudice a quo, inoltre, la fattispecie in esame prevede l’applicazione di una sanzione penale non già in relazione alla violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla misura, come nel caso delle fattispecie previste dagli artt. 75 e 76 cod. antimafia, ma in correlazione ad una condotta, la guida senza patente, estranea al nucleo precettivo della misura e soltanto indirettamente collegata all’applicazione della stessa, essendo la sottoposizione alla misura di prevenzione personale produttiva dell’effetto ostativo al rilascio della patente di guida. La disposizione, infine, contrasterebbe anche con il principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27, comma terzo, Cost., in quanto stabilisce un trattamento punitivo sproporzionato rispetto al fatto commesso, sanzionato come illecito amministrativo se commesso da altro soggetto, che sarebbe pertanto percepito come ingiusto dal condannato, e quindi inidoneo a svolgere la funzione di rieducazione. La guida senza patente, quindi, non assume più rilevanza penale, ma solo amministrativa, la disposizione incriminatrice non avrebbe più ragion d’essere, e non potrebbe introdurre ex novo una fattispecie di reato in cui l’elemento costitutivo fondamentale non è più considerato fatto punibile. Pertanto, la precedente sottoposizione a misura di prevenzione personale assumerebbe le «sembianze di un vero e proprio segno distintivo che incentra su di sé la ratio della punibilità a titolo di reato, trattando in modo speciale e differenziato rispetto a tutti gli altri cittadini, una categoria di persone in assenza di un collegamento con la condotta materiale del reato e indipendentemente dalla necessità di salvaguardare altri interessi di rilievo costituzionale». Secondo il rimettente, dunque, la previsione come reato, «della violazione, da parte del soggetto sottoposto alla blanda misura di prevenzione dell’avviso orale del questore, dell’obbligo di patente di guida, produce l’effetto abnorme di sanzionare come reato una violazione amministrativa che non trova giustificazione nell’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati». La disposizione censurata, inoltre, si porrebbe in contrasto anche con il principio di legalità della pena, di cui al secondo comma dell’art. 25 Cost., ciò in quanto l’essere sottoposto a misura di prevenzione personale, pur essendo evenienza estranea al fatto-reato, rende invero punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume disvalore sul piano penale. Inoltre, la disposizione censurata, enfatizzando la sola qualità soggettiva del reo in assenza di un collegamento con la condotta materiale di guida senza la patente, assumerebbe i tratti del reato d’autore, in violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali.
4.– Con atto depositato il 24 maggio 2022, è intervenuto anche nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale, chiedendo a questa Corte di dichiarare le questioni non fondate. In particolare, la difesa dello Stato espone le medesime argomentazioni già svolte in relazione alle questioni sollevate con l’ordinanza iscritta al r. o. n. 184 del 2021, aggiungendo, nello specifico, che la previsione incriminatrice in parola è giustificata dalla sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi di pericolosità sociale su cui si fonda la sottoposizione ad una misura di prevenzione personale, collocandosi, non già nell’alveo della tutela della sicurezza stradale, ma in quello delle misure volte alla tutela della sicurezza pubblica. Inoltre, quanto alla violazione del principio di offensività, la difesa dello Stato evidenzia che l’adozione di una misura di prevenzione personale è subordinata all’accertamento di determinati presupposti indicativi della pericolosità del soggetto di talché la norma vale a colpire una condotta che, in quanto qualificata dalla sussistenza di tali presupposti, rende la stessa oggettivamente eterogenea rispetto alla guida senza patente tenuta da un soggetto nei cui confronti non siano sussistenti siffatti presupposti. Sarebbe, altresì, insussistente la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto non solo il trattamento sanzionatorio non si pone come sproporzionato rispetto al fatto commesso, ma la finalità rieducativa della pena sarebbe comunque assicurata dalla riabilitazione di cui all’art. 70 cod. antimafia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.– Con le ordinanze di rimessione indicate in epigrafe (r. o. n. 184 del 2021 e r. o. n. 45 del 2022), la Corte di cassazione, sezione sesta penale, e il Tribunale ordinario di Ravenna, sezione penale, in composizione monocratica, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 3 e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73 cod. antimafia che punisce con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni la guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, commessa da persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale. I rimettenti censurano la scelta del legislatore di non aver trasformato in illecito amministrativo, come disposto invece dall’art. 1 del d.lgs. n. 8 del 2016, in relazione alla fattispecie di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, la fattispecie disciplinata dalla norma censurata. I giudici a quibus affermano, innanzi tutto, che la disposizione censurata contrasterebbe con l’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della violazione del principio di offensività, in quanto essa, richiedendo nella fattispecie incriminatrice la qualità personale del soggetto, in assenza di un collegamento materiale tra l’essere stato sottoposto a una misura di prevenzione personale e la condotta di guida senza patente, attribuirebbe alla contravvenzione i tratti del cosiddetto reato d’autore. In riferimento, poi, alla violazione dell’art. 3 Cost., i rimettenti sostengono che la disposizione di cui all’art. 73 cod. antimafia determinerebbe un trattamento differenziato della persona sottoposta ad una misura di prevenzione personale non solo rispetto agli altri cittadini, ma anche con riguardo alle persone che risultino pregiudicate, pure per gravi reati, nei cui confronti la condotta di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, non è più prevista dalla legge come reato, per effetto dell’art. 1 del d.lgs. n. 8 del 2016 che l’ha trasformata in illecito amministrativo. Infine, entrambi i rimettenti deducono la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. In particolare, la Corte di cassazione rimettente afferma che la disposizione incriminatrice, «nel trasformare irragionevolmente in elementi costitutivi del reato fatti per i quali è stata applicata, in modo irrevocabile, una misura di prevenzione personale vanifica la finalità rieducativa» della pena. A sua volta il Tribunale di Ravenna evidenzia che la disposizione incriminatrice determina l’irrogazione di un trattamento sanzionatorio sproporzionato rispetto al fatto commesso – punito come illecito amministrativo se commesso da altro soggetto – percepito come ingiusto dal condannato e, quindi, inidoneo a svolgere la funzione di rieducazione.
2.– In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano rigettate in ragione della loro non fondatezza.
3.– In via preliminare, deve disporsi la riunione dei predetti giudizi, atteso che le ordinanze di rimessione sollevano le stesse questioni e si fondano su argomentazioni sostanzialmente comuni. 4.– Le questioni sono ammissibili. Sussiste, innanzitutto, la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, in quanto entrambi i rimettenti hanno adeguatamente motivato in ordine alla necessità di fare applicazione della censurata disposizione nei giudizi a quibus (ex plurimis, sentenze n. 182 e n. 55 del 2021). In particolare, la Corte di cassazione (r. o. n. 184 del 2021) è investita con ricorso per cassazione avverso una pronuncia di condanna dell’imputato per il reato previsto dall’art. 73 cod. antimafia, in quanto conduceva un veicolo avendo avuto revocata la patente di guida, perché assoggettato alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno. Deve, quindi, fare applicazione di tale disposizione, la cui violazione è denunciata con il ricorso. A sua volta il giudice del Tribunale di Ravenna (r. o. n. 45 del 2022) ha dato atto che l’avviso orale, corredato dai divieti aggiuntivi di cui al comma 4 dell’art. 3 cod. antimafia, è una delle misure di prevenzione personali applicate dal questore, e, in quanto tale, suscettibile, secondo il rimettente, di integrare il presupposto della condotta incriminata, trattandosi di «conclusione imposta dalla tassonomia introdotta dal citato decreto legislativo – recante il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione – e dal chiaro tenore letterale del disposto» dell’art. 73 cod. antimafia. La Corte di cassazione evidenzia, poi, correttamente l’impossibilità di procedere ad «una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione sulla scorta del descritto inquadramento e della interpretazione data dalla Corte di legittimità sulla struttura del reato»; in termini analoghi si esprime anche il Tribunale di Ravenna. Parimenti, in entrambe le ordinanze di rimessione la non manifesta infondatezza delle sollevate questioni è puntualmente e diffusamente argomentata.
5.– Prima di procedere all’esame delle censure nel merito, si rende opportuno richiamare, in chiave diacronica, il quadro normativo e giurisprudenziale nel cui contesto si collocano le condotte di guida in assenza della patente, regolate sia dalle norme sulla disciplina della circolazione stradale, sia dalle disposizioni sul contrasto al fenomeno criminale mafioso.
5.1.– Inizialmente l’art. 80, tredicesimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 15 giugno 1959, n. 393 (Testo unico delle norme sulla circolazione stradale), prevedeva come reato, punito con l’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda da lire 25.000 a lire 100.000, la condotta di chiunque guidasse autoveicoli o motoveicoli senza essere munito della patente di guida o del certificato di abilitazione professionale, quando ciò fosse prescritto. Simmetricamente, l’art. 6 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) contemplava la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni, nei confronti di colui che sottoposto, con provvedimento definitivo, a misure di prevenzione avesse posto in essere la condotta di guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente fosse stata negata, sospesa o revocata, ai sensi degli artt. 82 e 91, secondo e terz’ultimo comma, numero 2), del d.P.R. n. 393 del 1959. Successivamente, l’art. 80 del d.P.R. n. 393 del 1959 è stato abrogato dall’art. 231 del nuovo codice della strada, il quale però, all’art. 116, comma 13, continuava a contemplare come reato la condotta di «chiunque guida autoveicoli o motoveicoli senza aver conseguito la patente di guida», prevedendo la pena dell’arresto da tre a dodici mesi e dell’ammenda da lire cinquecentomila a lire due milioni; e stabilendo, altresì, la stessa pena nei confronti dei «conducenti che guidano senza patente perché revocata o non rinnovata per mancanza dei requisiti previsti dal presente codice».
5.2.– Con l’entrata in vigore dell’art. 19 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205) si venne, poi, ad instaurare una seconda fase che, attraverso la sostituzione del comma 13 dell’art. 116 cod. strada, vedeva trasformata in illecito amministrativo la condotta di guida di autoveicoli o motoveicoli senza aver conseguito la patente, o con patente revocata o non rinnovata; illecito punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di lire da quattro milioni a lire sedici milioni. Inoltre, la medesima disposizione di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 507 del 1999, sostituendo il precedente comma 18 dell’art. 116 cod. strada, stabiliva anche che, in caso di reiterazione delle violazioni di cui al comma 13, conseguiva la sanzione accessoria della confisca del veicolo. Sul versante del contrasto alle organizzazioni criminali rimaneva, invece, immutata la previsione come reato della corrispondente fattispecie di guida senza patente, o dopo che la patente fosse stata negata, sospesa o revocata, di cui all’art. 6 della legge n. 575 del 1965, commessa da coloro che fossero sottoposti a misure di prevenzione personali. Si era determinata, quindi, una situazione analoga a quella attuale: una condotta che in generale costituiva un illecito amministrativo continuava ad essere sanzionata penalmente se la stessa era posta in essere da chi era sottoposto a misure di prevenzione personali. Tale disciplina differenziata non fu oggetto, all’epoca, di dubbi di legittimità costituzionale.
5.3.– Con il decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117 (Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione), convertito, con modificazioni, nella legge 2 ottobre 2007, n. 160, prese avvio una ulteriore fase che vedeva nuovamente il parallelismo delle fattispecie di reato. Infatti, l’art. 1 di tale decreto-legge sostituiva il comma 13 dell’art. 116 cod. strada con una nuova formulazione, secondo cui chi guidava autoveicoli o motoveicoli senza aver conseguito la patente di guida era punito con l’ammenda da euro 2.257 a euro 9.032; la stessa sanzione si applicava ai conducenti che guidavano senza patente perché revocata o non rinnovata per mancanza dei prescritti requisiti. Veniva così reintrodotto il reato contravvenzionale, anche se punito solo con l’ammenda. Il comma 13 dell’art. 116 cod. strada sarebbe poi diventato, con lo stesso contenuto, il comma 15 a seguito della riformulazione della norma ad opera del decreto legislativo 18 aprile 2011, n. 59 (Attuazione delle direttive 2006/126/CE e 2009/113/CE concernenti la patente di guida). Simmetricamente, la fattispecie di cui all’art. 6 della legge n. 575 del 1965 continuava a rimanere inalterata fino a quando nel 2011 confluiva nella disposizione censurata che ha previsto, e prevede tuttora: «Nel caso di guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, la pena è dell’arresto da sei mesi a tre anni, qualora si tratti di persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale».
5.4.– Si giunge, infine, alla fase attuale, in cui l’allineamento delle due discipline subisce, ancora una volta, una modifica perché interviene il d.lgs. n. 8 del 2016, il quale, all’art. 1, rubricato «Depenalizzazione di reati puniti con la sola pena pecuniaria ed esclusioni», al comma 1, stabilisce che «[n]on costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda» e, ai fini che qui rilevano, al comma 2, dispone che «la disposizione del comma 1 si applica anche ai reati in esso previsti che, nelle ipotesi aggravate, sono puniti con la pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria. In tal caso, le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome di reato». Inoltre, al comma 5, lettera b), sono stabilite le “nuove” sanzioni amministrative che, in riferimento alla fattispecie di cui al codice della strada in esame, ora depenalizzata, vengono fissate nella misura «da euro 5.000 a euro 30.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 20.000». Per effetto dell’intervento legislativo del 2016, si ha, dunque, che la fattispecie costituente reato, già prevista dal comma 15 dell’art. 116 cod. strada, nell’ipotesi punita solo con la pena pecuniaria, è divenuta illecito amministrativo, dovendosi escludere da tale depenalizzazione solo l’ipotesi aggravata, che si ha in caso di recidiva nel biennio, punita anche con la pena detentiva. Infatti, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 8 del 2016 «quando i reati trasformati in illeciti amministrativi ai sensi del presente decreto prevedono ipotesi aggravate fondate sulla recidiva ed escluse dalla depenalizzazione, per recidiva è da intendersi la reiterazione dell’illecito depenalizzato». Tale disposizione, come, peraltro, precisato dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 21 settembre-17 novembre 2016, n. 48779; in senso analogo, sentenze 6 aprile-14 giugno 2018, n. 27398 e 26 aprile-1° giugno 2017, n. 27504), è finalizzata ad escludere che possa ritenersi che la fattispecie aggravata venga meno per effetto della depenalizzazione del reato presupposto. Invece, sul piano delle disposizioni sul contrasto alla mafia, l’intervento legislativo di depenalizzazione, anche questa volta (come nel 1999, secondo quanto detto sopra), non ha inciso sull’art. 73 cod. antimafia che, in quanto norma speciale rispetto a quella del codice della strada, continua a prevedere una fattispecie distinta di reato, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 giugno-6 agosto 2019, n. 35772; sezione sesta penale, sentenza 12 dicembre 2017-20 febbraio 2018, n. 8223 e sezione prima penale, sentenza 13-26 giugno 2013, n. 27828); ciò allo «scopo di rafforzare l’obbligo di osservare le norme idonee a contenerne la pericolosità ed il reato conseguente è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni» (Cass., n. 8223 del 2018).
5.5.– Nel complesso, quindi, può registrarsi un risalente e costante parallelismo tra la fattispecie generale (di guida senza patente o con patente revocata o non rinnovata) e quella speciale (in cui la stessa condotta è posta in essere da chi è sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo). Esse hanno sempre visto, a fasi alterne, una disciplina ben distinta, sia quando entrambe hanno configurato fattispecie di reato, differenziate per gravità e pena edittale, sia quando la fattispecie comune è stata depenalizzata e trasformata in illecito amministrativo, mentre quella speciale è rimasta reato.
6.– Ciò premesso, le sollevate questioni di legittimità costituzionale non sono fondate. Le censure dei giudici rimettenti, pur articolate in riferimento a plurimi parametri (artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.), convergono nella richiesta a questa Corte di una pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione impugnata (art. 73 cod. antimafia) per effetto della quale la condotta, ivi contemplata come fattispecie di reato (guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, commessa da persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale), rileverebbe, invece, sul piano sanzionatorio, negli stessi termini previsti per la generalità di coloro che non sono assoggettati a misure di prevenzione personali, in tal modo conseguendo i medesimi effetti che la depenalizzazione, prevista dal d.lgs. n. 8 del 2016, ha prodotto in relazione alla parallela disposizione del codice della strada (art. 116, comma 15).
7.– In primo luogo, non sussiste la dedotta violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo del mancato rispetto del principio di offensività. Il contesto normativo e giurisprudenziale, di cui si è detto sopra, fa emergere la sostanziale differenza e non sovrapponibilità, in termini di offensività, delle fattispecie poste a confronto: quella comune (art 116, comma 15, cod. strada) e quella speciale (art. 73 cod. antimafia).
7.1.– Questa Corte ha, in più occasioni, affermato che il rispetto del principio di offensività (nullum crimen sine iniuria), desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost. (ex plurimis, sentenza n. 354 del 2002), comporta che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può reprimere sul piano penale, come fattispecie di reato, soltanto condotte che, nella loro descrizione tipica comunque rispettosa del principio di legalità, consistano, altresì, in comportamenti dal contenuto offensivo di beni meritevoli di protezione, anche sotto il profilo della loro mera esposizione a pericolo. Con orientamento costante (ex multis, sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000) si è, altresì, precisato che il principio di offensività opera su due piani distinti: da un lato, come precetto rivolto al legislatore, diretto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività «in astratto»); dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività «in concreto»). Quanto al primo aspetto, il principio di offensività «in astratto» non implica che l’unico modello, costituzionalmente legittimo, sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore la scelta per forme di tutela anticipata, che colpiscano l’aggressione ai beni giuridici protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del 2008); prospettiva nella quale non è precluso, di norma, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986). In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio di offensività possa ritenersi rispettato, occorrerà «che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991 e, più recentemente, sentenze n. 109 del 2016, n. 141 e n. 278 del 2019). Insomma, anche i reati di pericolo presunto, ai quali va ascritta la previsione di cui all’art. 73 cod. antimafia, devono essere connotati dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa (sentenza n. 360 del 1995).
7.2.– Il principio di offensività del reato, anche nella sua configurazione come fattispecie di pericolo, postula che le qualità personali dei soggetti o i comportamenti pregressi degli stessi non possono giustificare disposizioni che attribuiscano rilevanza penale a condizioni soggettive, salvo che tale trattamento specifico e differenziato rispetto ad altre persone non risponda alla necessità di preservare altri interessi meritevoli di tutela. Questa Corte si è, talora, pronunciata sulla legittimità costituzionale di specifiche previsioni incriminatrici asseritamente collegate al “modo di essere dell’autore”, piuttosto che ad uno specifico comportamento trasgressivo del soggetto agente; ciò che configurerebbe una inammissibile “responsabilità penale d’autore”, ravvisabile, secondo i giudici rimettenti, anche nella disposizione censurata. Emblematica è la fattispecie oggetto della sentenza n. 249 del 2010, con cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis), cod. pen., introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125, che prevedeva la circostanza aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale. In particolare, si è affermato che il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili implica l’illegittimità costituzionale di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato», perché così si introdurrebbe una responsabilità penale d’autore «in aperta violazione del principio di offensività». Inoltre, nella sentenza n. 354 del 2002, più volte richiamata nelle ordinanze di rimessione, questa Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 688, secondo comma, cod. pen., ha affermato che «[l]’avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale». In particolare, ha evidenziato che la precedente condanna, divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, rappresentava un marchio, che, «privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza», valeva a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurava un illecito penale. Sicché il secondo comma dell’art. 688 cod. pen., dopo la depenalizzazione (ex art. 54 del d.lgs. n. 507 del 1999) della fattispecie del primo comma (relativa alla condotta di essere in stato di manifesta ubriachezza in un luogo pubblico o aperto al pubblico), finiva col punire come reato non tanto l’ubriachezza in sé, quanto una qualità personale dell’autore della condotta. Una tale fattispecie assumeva, quindi, «i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte (sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995)». Non è quindi compatibile con il principio di offensività l’incriminazione di un mero status, anziché di una condotta, pur potendo rilevare, nei reati propri, la condizione soggettiva dell’autore. Ciò implica, altresì, una valutazione di ragionevolezza, quale quella operata da questa Corte nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 707 cod. pen., limitatamente alla parte in cui, prevedendo come reato il possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, poneva, come presupposto dello stesso, le condizioni personali di condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta (sentenza n. 14 del 1971). Analoga pronuncia aveva investito l’art. 708 cod. pen., che contemplava come reato il possesso ingiustificato di valori da parte (anche) della stessa categoria di soggetti (sentenza n. 110 del 1968). Peraltro, successivamente, questa Corte ha operato uno scrutinio ancor più stretto, ritenendo che anche la condizione soggettiva di chi era stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, mostrasse l’irragionevolezza di tale presupposto riferito a una sola categoria di persone (sentenza n. 370 del 1996); condizione soggettiva che, invece, con riferimento alla (residua) fattispecie dell’art. 707 cod. pen., è stata ritenuta non delineare una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva dei principi di offensività (sentenza n. 225 del 2008).
7.3.– Orbene, nella fattispecie sottoposta allo scrutinio di questa Corte non è ravvisabile una ipotesi di “responsabilità penale d’autore”. Le misure di prevenzione personale, sia se applicate dall’autorità amministrativa, sia se adottate dall’autorità giudiziaria, presuppongono la riconducibilità della persona ad una delle categorie di destinatari previste dal codice antimafia, l’attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura e la pericolosità sociale effettiva della persona per la sicurezza pubblica. L’applicazione di tali misure ha lo specifico obiettivo, tra gli altri, di garantire l’attuazione della necessaria vigilanza da parte degli organi di pubblica sicurezza, anche attraverso la previsione di limitazioni della libertà di circolazione (sentenza n. 24 del 2019). In tale pronuncia si è affermato, in particolare, che «imperniate come sono su un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato». Si è altresì sottolineato che «l’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati, che è al fondo della ratio delle misure di prevenzione e che si raccorda alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, come valore costituzionale, è comunque soddisfatta dalle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno» (sentenza n. 25 del 2019). Pertanto, non ogni inadempimento di obblighi generici e indeterminati può essere posto a carico dei destinatari delle misure di prevenzione, ma soltanto quello che si sostanzia in violazioni di specifiche prescrizioni finalizzate alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza; prescrizioni che, nella fattispecie oggetto delle censure di illegittimità costituzionale in esame, sono riconducibili all’art. 120 cod. strada. Tale disposizione, al comma 1, stabilisce che non possono conseguire la patente di guida coloro che sono, o sono stati, sottoposti alle misure di prevenzione previste dalla legge n. 1423 del 1956 (con la sola eccezione di quella di cui all’art. 2) e dalla legge n. 575 del 1965. La norma contenuta nell’art. 120 cod. strada, che stabilisce i requisiti per il rilascio ed il permanere del titolo abilitativo, integra il necessario presupposto normativo della fattispecie incriminatrice censurata, che trova la sua ratio nella violazione della regola posta dalla disposizione del codice della strada; ciò in virtù dell’espresso riferimento a coloro che sono sottoposti alle misure di prevenzione previste dalla menzionata legge n. 1423 del 1956. Quindi, la perdurante rilevanza penale della condotta di guida in assenza del titolo abilitativo, invece depenalizzata per coloro che non sono sottoposti a misure di prevenzione (salva l’ipotesi della “recidiva” nell’illecito amministrativo che rimane reato), si ricollega alla violazione di una regola specifica, qual è quella desumibile dall’art. 120 cod. strada, e non semplicemente al generico obbligo di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi» (sentenza n. 25 del 2019).
7.4.– È, dunque, in questa chiave che deve valutarsi la collocazione della norma incriminatrice nell’ambito del codice antimafia. Presupposto della fattispecie penale è la mancanza del titolo abilitativo alla guida quale conseguenza dell’applicazione della misura di prevenzione personale; presupposto che, come rilevato, trova il suo specifico riferimento normativo nella disposizione di cui all’art. 120 cod. strada. Si ha, dunque, che la violazione della regola, che vieta di guidare autoveicoli e motoveicoli senza patente al soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale, è espressione di una valutazione discrezionale del legislatore, il quale ha ritenuto sussistere un quid pluris di pericolosità per il fatto che colui che sia sottoposto con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale possa circolare alla guida di un veicolo. Tale elemento differenziale è già stato evidenziato, e valorizzato, da questa Corte per dichiarare non fondate le censure di disparità di trattamento con riferimento, sia alla generalità degli autori della condotta di guida senza patente (ordinanza n. 66 del 1971), sia a chi, sottoposto a misura di sicurezza, ponga in essere la medesima condotta (sentenza n. 66 del 1984). Infatti, con riferimento all’originaria differente disciplina sul trattamento sanzionatorio, che puniva più severamente la condotta di guida senza patente (o dopo che la patente fosse stata negata, sospesa o revocata) posta in essere da coloro che fossero sottoposti alle misure di prevenzione personali, questa Corte dichiarò la non fondatezza manifesta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 575 del 1965, sollevata sotto il profilo della dedotta disparità di trattamento tra chi, sprovvisto di patente, guidava un autoveicolo e chi commetteva lo stesso reato essendo sottoposto, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione come indiziato di appartenere ad associazioni mafiose (ordinanza n. 66 del 1971). In seguito, dopo che l’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico) ha esteso l’applicazione della richiamata legge n. 575 del 1965 (e quindi anche del suo art. 6) alle persone indicate nell’art. 1, numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del 1956, questa Corte (sentenza n. 66 del 1984) ha parimenti dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma, risultante dall’art. 19, primo comma, in relazione all’indicato art. 6, che prevedeva che le persone già sottoposte con provvedimento definitivo a misure di prevenzione fossero punite con la pena (dell’arresto da sei mesi a tre anni) sensibilmente più severa di quella (dell’arresto da tre a sei mesi) comminata, per il reato comune di guida senza patente, dall’art. 80 cod. strada, in via generale e, quindi, anche a carico di soggetti sottoposti a misura di sicurezza personale non detentiva. La Corte osservava, in particolare, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, aveva ritenuto di dare specifico rilievo a una circostanza relativa alla persona del colpevole – al fatto, cioè, che si trattava di persona sottoposta con provvedimento definitivo a misura di prevenzione personale – «con apprezzamento che non spetta alla Corte sindacare». Né sussisteva il denunciato vizio di irragionevolezza in considerazione della disomogeneità delle situazioni, differenziate dalla qualità della persona del colpevole: «scelta opinabile […] ma coerente all’ispirazione cui obbedisce il sistema delle misure di prevenzione» (in senso conforme, ordinanza n. 257 del 1985).
7.5.– Certo, da quando la fattispecie in esame è stata prevista come reato, fin dalle misure di contrasto dalle organizzazioni criminali di tipo mafioso introdotte dalla legge n. 575 del 1965 (di cui si è detto sopra), è trascorso molto tempo e, nel contesto attuale di generale accresciuta possibilità di mobilità con i mezzi di trasporto più vari, appare meno evidente la pericolosità specifica della persona sottoposta a misura di prevenzione personale che si ponga alla guida di un veicolo senza il titolo abilitante. La patente di guida, d’altra parte, può costituire un necessario presupposto per svolgere un’attività lavorativa. E a tal fine rileva, altresì, che le misure di prevenzione devono comunque modularsi in modo da essere anche orientate a emendare i destinatari, proprio nell’ottica di prevenire la commissione di reati. Per altro verso, poi, questa pericolosità specifica, connessa alla guida di veicoli da parte di chi è assoggettato a misura personale di prevenzione, è oggi meglio calibrata. Deve, infatti, tenersi conto della sentenza n. 99 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2, cod. strada nella parte in cui dispone che il prefetto «provvede», invece che «può provvedere», alla revoca della patente di guida nei confronti dei soggetti che sono, o sono stati, sottoposti a misure di prevenzione. Questa Corte ha ritenuto l’irragionevolezza del meccanismo, previsto dal censurato art. 120, comma 2, cod. strada, che ricollegava in via automatica alla dichiarata pericolosità sociale dei destinatari delle misure, pur nella varietà e diversa gravità della stessa, l’identico effetto di revoca prefettizia della patente di guida. Ha quindi concluso precisando: «il carattere non più automatico e vincolato del provvedimento prefettizio, che ne consegue, è destinato a dispiegarsi non già, ovviamente, sul piano di un riesame della pericolosità del soggetto destinatario della misura di prevenzione, bensì su quello di una verifica di necessità/opportunità, o meno, della revoca della patente di guida in via amministrativa a fronte della specifica misura di prevenzione cui nel caso concreto è sottoposto il suo titolare. E ciò, come detto, anche al fine di non contraddire l’eventuale finalità, di inserimento del soggetto nel circuito lavorativo, che la misura stessa si proponga». Almeno nell’ipotesi della revoca della patente in ragione dell’applicazione della misura di prevenzione personale (l’unica finora venuta all’esame di questa Corte sotto il profilo del censurato automatismo della preclusione), c’è pertanto un momento di valutazione in concreto, caso per caso, della pericolosità specifica dell’interessato, che peraltro si accompagna anche alla giustiziabilità della valutazione prefettizia. Ciò conforta l’identificazione di una pericolosità specifica della condotta prevista dalla disposizione censurata e, quindi, il riconoscimento dell’offensività del relativo reato contravvenzionale.
7.6.– In conclusione, la disposizione censurata, nel prevedere un trattamento sanzionatorio più severo, rispetto a quello della disposizione di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, è finalizzata a tutelare l’ordine pubblico, potenzialmente posto in pericolo nelle ipotesi in cui sia violata la disposizione di cui all’art. 120 cod. strada, cui è ricollegata la necessità di porre limitazioni agli spostamenti, di impedire o ostacolare la perpetrazione di attività illecite e di rendere meno agevole il sottrarsi ai controlli dell’autorità nei confronti di soggetti pericolosi. Sicché, rispetto alla fattispecie in esame, l’essere sottoposto, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale – cui l’art. 120 cod. strada ricollega l’impossibilità di porsi legittimamente alla guida – non si pone come «evenienza del tutto estranea al fatto-reato» previsto dall’art. 73 cod. antimafia (sentenza n. 354 del 2002) e pertanto non è configurabile come “responsabilità penale d’autore”. Ciò giustifica, sul piano del principio di offensività, la fattispecie penale di cui all’art. 73 cod. antimafia e conseguentemente è non fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.
8.– Nelle considerazioni dianzi svolte è insita anche la non fondatezza della ulteriore questione riferita alla violazione dell’art. 3 Cost. La differente risposta punitiva per la condotta di guida senza patente prevista, da un lato, per i soggetti non colpiti da misure di prevenzione personali, e dall’altro, per coloro che a causa dell’accertata pericolosità vi siano sottoposti, risponde ad una non irragionevole scelta del legislatore in materia di politiche sanzionatorie, coerente ad un legittimo inasprimento della risposta punitiva in relazione al differente disvalore della condotta e alla diversa intensità dell’offesa ai beni protetti. Rientra, infatti, nella non irragionevole opzione legislativa graduare la reazione dell’ordinamento rispetto ad un illecito commesso, sanzionando l’ipotesi meno grave sul piano amministrativo, allo scopo di assicurare il bene della sicurezza della circolazione stradale; e, al contempo, punire più severamente la stessa condotta, realizzata da persone pericolose perché soggette in via definitiva a misure di prevenzione personali. L’elemento differenziale della pericolosità di chi è assoggettato a una misura di prevenzione personale, che vale ad assicurare l’offensività della fattispecie di reato per tutte le considerazioni sopra svolte, rappresenta anche la ragione giustificatrice della diversa disciplina sanzionatoria. A tal riguardo, questa Corte ha già affermato che costituisce legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore attribuire specifico rilievo alla persona del colpevole, determinando «autonomamente la misura della pena rispetto a quanto previsto in via generale dall’art. 80 d.P.R. n. 393 del 1959, senza con ciò incorrere in vizio di irragionevolezza in considerazione della disomogeneità delle situazioni, differenziate dalla qualità della persona del colpevole» (sentenza n. 66 del 1984; ordinanze n. 257 del 1985 e n. 66 del 1971). Per analoghe ragioni non ha fondamento nemmeno il profilo di censura fondato sul raffronto della fattispecie di cui all’art. 73 cod. antimafia, quale reato proprio del soggetto sottoposto alle misure di prevenzione, con la fattispecie di cui all’art. 71 cod. antimafia, in cui tale qualità assurge, invece, a circostanza aggravante in riferimento ad alcuni reati e non già ad elemento costitutivo. Si tratta di ipotesi nettamente diverse e non comparabili.
9.– Non fondata è anche l’ultima questione con la quale si denuncia la violazione del principio della finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. Per un verso i significativi elementi differenziali tra le fattispecie poste a confronto, giustificando il diverso regime sanzionatorio, escludono che l’art. 73 cod. antimafia preveda un trattamento sproporzionato se comparato con la sanzione solo amministrativa contemplata per la stessa condotta, posta in essere da chi non è assoggettato a misure di prevenzione personali. Per altro verso – come si è già osservato – la pericolosità specifica della condotta della persona sottoposta alla misura di prevenzione personale, già in possesso del titolo abilitante alla conduzione di veicoli, non consegue automaticamente all’assoggettamento a misure di prevenzione di carattere personale, ma richiede che sia valutata dal prefetto prima di revocare la patente di guida (sentenza n. 99 del 2020). Più in generale, si è già sottolineato che a tal fine rileva che le misure di prevenzione devono comunque essere calibrate anche sulla pericolosità in concreto.
10.– In conclusione, per le considerazioni fin qui svolte, tutte le questioni vanno dichiarate non fondate in riferimento ai parametri evocati nelle ordinanze di rimessione.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, e dal Tribunale ordinario di Ravenna, sezione penale, in composizione monocratica, con le ordinanze indicate in epigrafe.
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