Tra presunte libertà reclamate con la violenza e diritti veri conquistati con il sangue
[Ethica Societas anno 1 n.1]
Queste ultime elezioni sono state un fallimento, della democrazia.
Quando i sindaci di grandi città, a partire da Roma, vengono eletti al ballottaggio solamente da un quarto dei cittadini, vi è un evidente segnale di sofferenza democratica. Non si tratta dunque di un mero incidente di percorso. E mentre i maggiori esponenti dei partiti si sono rifugiati in generiche dichiarazioni riguardo la necessità di fare autocritica e progettare il futuro, viene spontaneo chiedersi il perché di questo sempre più marcato sentimento di insofferenza verso uno dei diritti e doveri fondamentali della nostra repubblica: il voto[1].
L’astensionismo oggi è riconosciuto come un comportamento legittimo del cittadino, a differenza del passato, e secondo le leggi nn. 276 e 277 del 4 agosto 1993 (le c.d. Leggi Mattarella dal nome dell’allora relatore e attuale Presidente dela Repubblica), l’espressione del voto viene ridefinito solamente come un “diritto” e non più come un “diritto ed un dovere”[2] [3].
Vi è quindi una perdita di “sacralità”, di importanza del voto, con conseguente atteggiamento passivo dei votanti, che passano dall’usarlo come strumento per il cambiamento a strumento facoltativo sui cui riversare il proprio mal di pancia momentaneo, contro una classe dirigente ritenuta inadeguata.
Facciamo una breve retrospettiva sui fenomeni di astensionismo del passato remoto e prossimo.
IL DIRITTO DI VOTO
La lungimiranza e la grande civiltà del Granducato di Toscana, il primo stato al mondo che abolì la pena di morte, si conferma anche lell’introduzione suffragio universale per tutti i maggiorenni sin dal XIX secolo.
Nel Regno d’Italia il primo suffragio universale fu introdotto agli inizi del XX secolo con la legge 30 giugno 1912 n. 666, contenente il nuovo testo unico della legge elettorale politica, che sostituì la precedente legge elettorale italiana del 1882 (modificata nel 1891) mantenendo il sistema maggioritario.
La riforma, approvata dal quarto Governo Giolitti, allargò il suffragio a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni o che, pur minori di 30 anni ma maggiori di 21, pagassero un’imposta diretta annuale di almeno 19,80 lire, o avessero conseguito la licenza elementare inferiore, oppure avessero prestato il servizio militare.
Le Camere rifiutarono quasi all’unanimità di concedere il diritto di voto alle donne, sia i liberali e sia i socialisti erano convinti che esse sarebbero state troppo influenzabili dai clericali, fu rigettato anche il ripristino del sistema proporzionale.
Il corpo elettorale passò dal 7% al 23,2% della popolazione.
Dopo la prima guerra mondiale, con la legge 16 dicembre 1918 n.1985, approvata dal Governo Orlando, fu ampliato l’elettorato, sempre maschile, a tutti i cittadini con età maggiore ai 21 anni o che avessero prestato il servizio nell’esercito mobilitato, in questo caso anche e minorenni.
Con la successiva legge 15 agosto 1919 n.1401 fu restaurato dal Governo Nitti il sistema proporzionale.
Il voto alle donne fu riconosciuto, per la parte d’Italia liberata dall’occupazione nazifascista, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945, dal Governo Bonomi.
Le donne esercitarono questo diritto il 10 marzo 1946 alle prime elezioni amministrative e il 2 e 3 giugno 1946 per scegliere fra monarchia o repubblica.
La Costituzione italiana approvata il 22 dicembre 1947 ha fissato, sopra ogni legge ordinaria, il suffragio universale senza alcuna limitazione per i maggiorenni.
L’ASTENSIONISMO CATTOLICO
L’astensionismo ha sempre avuto delle motivazioni politiche sin dalla nascita dell’Italia unita: l’astensionismo dei cattolici, iniziò ufficiosamente alle prime elezioni del neonato Regno d’Italia del 1861 a seguito della pubblicazione dell’editoriale “Né eletti né elettori” (08/01/1861) sul quotidiano d’ispirazione cattolica L’Armonia [4], da parte del direttore don Giacomo Margotti[5], un vero e proprio imperativo lanciato dagli ambienti cattolici più conservatori che, generalmente, sono più papalini del Papa.
Il 30 gennaio 1868 la Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari[6], ai vescovi piemontesi, che chiedevano se fosse lecito per i cattolici partecipare alle elezioni politiche, rispose con un diniego mascherato da consiglio: “non expedit”, ossia “non è conveniente”.
Questa linea di condotta venne successivamente confermata il 9 novembre 1870, immediatamente dopo la Presa di Roma e in concomitanza con le elezioni politiche del 5 dicembre, dalla Sacra Penitenzieria che ribadì la disposizione in una nota ai vescovi italiani il 10 settembre 1874[7].
Il non expedit fu ribadito esplicitamente da Papa Leone IX in ripetute occasione fino al 1877, iniziando dal discorso del 11 ottobre 1874, con il quale invitando le donne cattoliche romane del Circolo di Santa Melania a un’intenzione di preghiera “straordinaria” si espresse esplicitamente sulla possibilità per i cattolici di partecipare alle elezioni politiche: «[…] Per il che io concludo che non è lecito andare a sedere in quell’aula e voi, dilettissime figlie, pregate perché Iddio […] apra gli occhi a quelli che vanno barcollando […]. Pregate specialmente per questi che meritano compassione»[8].
Sotto il pontificato del successore Leone XIII, intervenne il Sant’Uffizio[9] per ribadire esplicitamente il divieto assoluto di partecipazione attiva e passiva dei cattoli alla politica italiana, cpecificando che: «non expedit prohibitionem importat» [trad.=“la non convenienza implica il divieto”].
Il divieto di partecipare alla vita politica italiana fu un segno di protesta per la progressiva mancanza di indipendenza della Santa Sede e si conclamò ufficialmente con la perdita della sovranità temporale del Pontefice dopo la conquista e l’annessione da parte del Regno d’Italia ma poi divenne una pesante eredità difficile da contraddire.
Infatti Pio X, successore di Leone XIII, quando era ancora arcivescovo aveva affermato: «bisognerebbe avere il coraggio di abbandonare il non expedit. Sento che avrei questo coraggio qualora divenissi papa», ma poi salito al soglio pointificio si trovò nell’imbarazzo di non poter contraddire le scelte dei predecessori, forse più per il condizionamento di un’opinione pubblica cattolica scissa tra un intransigentismo più papalino di quello del papa e un progressismo più spregiudicato di quanto la prudenza avrebbe dovuto consigliare[10].
Quelle che avevano sopraffatto Pio X e forse anche Leone XIII erano state le alte esigenze del governare un organismo di tradizione millenaria come la Chiesa e quindi, se non può essere accettata la tesi del Gramsci del non expedit come «espressione dell’opportunismo più piatto»[11], esso fu certamente un sofferto compromesso, durato probabilmente troppo a lungo.
La fine dell’astensionismo cattolico arrivò nel 1919 con l’abrogazione definitiva e ufficiale del non expedit, già inapplicato da tempo, da parte di papa Benedetto XV. Ciò permise la nascita del Partito Popolare Italiano, vagheggiato già nel 1905 da don Luigi Sturzo come partito d’ispirazione cattolica, ma indipendente dalla gerarchia nelle sue scelte politiche.
L’ASTENSIONISMO ANARCHICO
L‘astensione dal voto può essere usato per una tacita disapprovazione che non assurge al livello di opposizione attiva oppure per affermare una posizione minoritaria contro il sentimento popolare che supporta una posizione contraria e quindi il voto, anche contrario, rafforzerebbe la maggioranza legittimandola.
Per supportare questa strategia apolitica, diversi non-votanti affermano che votare non apporta alcuna differenza positiva. L’espressione “Se votare cambiasse qualcosa, l’avrebbero reso illegale” è un sentimento spesso citato ed attribuito all’anarchica Emma Goldman[12].
Gli anarchici si sono astenuti dalle votazioni sin dai tempi del Regno d’Italia, in quanto ritenevano il Parlamento una forma d’istituzione anacronistica e si astennero anche durante le prime fasi del fascismo, quandio ancora si chiedeva il voto ai cittadini, sebbene in manoera pilottata e supportato dalle mincce e dalle violenze.
Durante il regime gli astensionisti erano una sparuta e coraggiosa minoranza, che rifiutava di votare come esplicito dissenso al regime.
L’ASTENSIONISMO DAL DOPOGUERRA AD OGGI
Nell’immediato dopoguerra gli italiani mostrarono una gran voglia di partecipazione democratica, che si rifletteva nell’affluenza alle urne, con l’estensione del diritto di voto anche alle donne.
Fra il 1948 e il 1976 va ai seggi per le elezioni politiche almeno il 92% degli aventi diritto, ciò è giustificato anche dal desiderio dei cittadini di recuperare la libertà politica eliminata nel periodo fascista e dalla volontà di mettere in atto quel diritto-dovere che la nuova costituzione repubblicana assicurava loro, e che la legge ordinaria sanzionava in caso di non partecipazione al voto.
Attualmente ci troviamo a vivere nell’era dell’astensionismo come simbolo di sfiducia-protesta, che coincide anche con una spersonalizzazione dei partiti politici, sempre più distanti da ciò che era il partito di massa degli ultimi 50 anni.
Partiti oramai incapaci di saper ascoltare il cittadino e fare da tramite con le istituzioni. Partiti sempre più burocratici e tendenti alla propria autoconservazione. Insomma I fantasmi di quel partito che, da tramite fra il cittadino e le istituzioni, si è trasformato invece in una macchina, in uno strumento per il raggiungimento dei consensi ad ogni costo, saldo nelle mani di un leader che tenta richiami ad ideologie chiaramente superate.
Un tentativo di categorizzazione ormai effimero, che per ottenere consensi sempre più larghi si affida alle più disparate frange della società.
Con i social praticamente fuori controllo nella politica grazie ad un uso indiscriminato delle fake news, create ad arte per fomentare odio verso la fazione opposta. In tutto questo clima di incertezze l’elettore è la vittima principale, privo di riferimenti ideologici precisi e con una classe dirigente che vede come burocratica e focalizzata sui propri interessi, incapace o che forse non ha voglia di ascoltarlo.
Chiaramente un contesto del genere crea una sorta di passività e di disinteresse verso le istituzioni e gli stessi partiti. I cittadini si ritrovano a dover scegliere persone in cui non hanno minimamente fiducia, a dover operare una scelta importante fra l’astensionismo o il voto per il “meno peggio”.
Una questione che non è mai stata analizzata seriamente e che nelle elezioni di quest’anno ha dimostrato le sue amare conseguenze: il 56,06%, ovvero la percentuale degli aventi diritto , hanno disertato i ballottaggi.
È la storia a doverci far riflettere, se il popolo ritiene inutile recarsi alle urne significa che non crede più nel momento elettorale come occasione di cambiamento, esprime delusione e rabbia rimanendo a casa.
Dunque a cosa ci troviamo di fronte : Astensionsimo o disaffezione politica?
Qualunque sia la vostra risposta dobbiamo difendere un diritto importantissimo che abbiamo guadagnato con il sangue, abbattendo un regime dove la libertà di espressione o di scelta non era poi così scontata.
NOTE:
[1] Costituzione art.48 c.2 «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.».
[2] Legge 04 agosto 1993 n.276, Norme per l’elezione del Senato dela Repubblica, art.2 c.2 «All’articolo 25, primo comma, della citata legge 6 febbraio 1948, n. 29, le parole: “Per l’adempimento del dovere del voto” sono sostituite dalle seguenti: “Per l’esercizio del diritto di voto.”».
[3] Legge 04 agosto 1993 n.277, Norme per l’elezione della Camera dei Deputati, art.1 c.1 p.e «e) l’articolo 4 è sostituito dal seguente: “Art. 4. – 1. Il voto è un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica.”».
[4] «L’Armonia», XIV, 7, 8 gennaio 1861. Su «L’Unità cattolica» cfr. M. Tagliaferri, L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993.
[5] Proprio per le sue posizioni astensionistiche don Giacomo Margiotta fu allontanato dalla direzione de «L’Armonia» nel 1863 e passò quindi a «L’Unità cattolica».
[6] Congregatio pro negotiis ecclesiasticis extraordinariis, era un organismo straordinario creato da Pio VII nel 1814 con la funzione di ordinare le richieste provenienti da ogni ambito d’amministrazione per poi portarle alla conoscenza del pontefice o di altri organi istituzionali o congregazioni, che, dopo il crollo dell’Impero Francese di Napoleone Bonaparte e la restituzione di Roma al pontefice, con il conseguente ristabilirsi dello Stato della Chiesa. È stato soppresso il 1 marzo 1989 da Giovanni Paolo II.
[7] G. Martina, Pio IX (1867-1878), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1990.
[8] L’Osservatore romano, 14 ottobre 1874.
[9] La Suprema congregazione del Sant’uffizio è il nome preso il 29 giugno 1908, per volontà di Pio X, dalla Sacra Congregazione della romana e universale inquisizione (comunemente chiamato Tribunale per la santa inquisizione) fondata da Paolo III il 21 luglio 1542 con la costituzione apostolica Licet ab initio allo scopo di “mantenere e difendere l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine”. Paolo VI, con il motuproprio Integrae servandae del 7 dicembre 1965, ha riformato profondamente questa istituzione mutandone la denominazione in Sacra congregazione per la dottrina della fede (indicata anche con l’acronimo CDF dal nome latino Congregatio pro doctrina fidei), ulteriormente riformata nel 1988 da Giovanni Paolo II con la costituzione Pastor Bonus.
[10] P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma 1963.
[11] A. Gramsci, I quaderni del carcere, Quaderno 19 (X) § (31) Italia reale e Italia legale, «Il clericalismo non era quindi neanche esso l’espressione della società civile, perché non riuscì a darle un’organizzazione nazionale ed efficiente, nonostante esso fosse un’organizzazione forte e formalmente compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che in un certo senso controllava. La formula politica del “non expedit” fu appunto l’espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente, in realtà era l’espressione dell’opportunismo più piatto.».
[12] Emma Goldman, The Tragedy of Women’s Emancipation, in Anarchism and Other Essays, Second revised, Mother Earth Publishing Association, 1911,