Tra il 1943 e il 1947 gli Jugoslavi titini sterminarono esseri umani colpevoli solo di essere italiani
Abstract: Dall’8 settembre 1943 al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, si consumò la pulizia etnica degli italiani nei massacri delle foibe, sterminati per legittimare l’occupazione dei comunisti jugoslavi di Tito che rivolsero la loro violenza persino contro i partigiani italiani. Chi non fu sterminato fu costretto all’esodo forzato lasciando la loro terra, le loro case e i loro averi alla violenza dei tititni. Per lungo tempo questa tragedia è stata taciuta se non addirittura negata, ma la violenza non ha colori né giustificazioni e il tifo è complice.
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Il genocidio faticosamente ricordato
Solo nel 2005 si è istituito il Giorno del ricordo del genocidio degli italiani nei massacri delle foibe (in sloveno: poboji v fojbah, in croato: masakri fojbe, in serbo: mасакри фоjбе – masakri fojbe?) è stato istituito come solennità civile nazionale solo dopo circa 60 anni, con la legge 30 marzo 2004 n. 92, per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale“.
«Questi drammatici avvenimenti formano parte integrante della nostra vicenda nazionale; devono essere radicati nella nostra memoria; ricordati e spiegati alle nuove generazioni. Tanta efferatezza fu la tragica conseguenza delle ideologie nazionalistiche e razziste propagate dai regimi dittatoriali responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono».
(Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione della prima celebrazione del “Giorno del ricordo”. Roma, 9 febbraio 2005).
Tra il 1943 e il 1947 furono sterminati tanti italiani autoctoni della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia, da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA1, il servizio segreto del regime comunista del dittatore Josip Broz, meglio noto come Tito (1892–1980).
Le foibe che caratterizzano questo eccidio deriva dai grandi inghiottitoi carsici (chiamati in Venezia Giulia “foibe”) dove furono gettati i corpi delle vittime o le stesse ancora in vita. Per estensione i termini “foibe” e il neologismo “infoibare” sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi2.
Violenza cieca e biechi interessi come in tutte le pulizie etniche
«La furia dei partigiani titini si accanì, in modo indiscriminato ma programmato, su tutti: su rappresentanti delle istituzioni, su militari, su civili inermi, su sacerdoti, su intellettuali, su donne, su partigiani antifascisti, che non assecondavano le mire espansionistiche di Tito o non si sottomettevano al regime comunista.
Le violenze anti-italiane, nella maggior parte dei casi, non furono episodi di, inammissibile, vendetta sommaria. Rispondevano piuttosto a un piano preordinato di espulsione della presenza italiana.»
I corpi delle vittime recuperati testimoniano che non si fece alcuna distinzione tra civili e militari, tra uomini, donne e bambini, tra fascisti e antifascisti, perché, come in ogni pulizia etnica, lo scopo esplicito era quello di eliminare un gruppo etnico e appropriarsi dei loro beni.
«…già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.»
(Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del “Giorno del ricordo”. Roma, 10 febbraio 2007).
La prima fase del genocidio
La violenza cieca contro chiunque potesse essere considerato italianoinizio subito dopo l’armistizio dell’8 marzo 1943 a cui seguì la caduta del fascismo e lo sbando delle forze armate senza guida unitaria. Le truppe del Reich occuparono i centri strategici di Trieste, Pola e Fiume, mentre nell’interno dell’Istria il potere venne assunto dal movimento di liberazione jugoslavo. Il quadro divenne presto estremamente confuso tra l’insurrezione dei contadini e arrivo delle formazioni partigiane croate.
L’Istria venne annessa alla Croazia e occupata dai partigiani dei Comitati popolari di liberazione sotto il comando di Tito. Furono istituiti tribunali popolari che , con processi sommari, emisero centinaia di condanne a morte. Sulla giustizia prevaleva la faida, si rispondeva con il crimine al crimine. Ci si voleva vendicare dei fascisti o presunti tali, infatti le vittime non furono solo i gerarchi o gli esponenti politici e istituzionali, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana, considerati un ostacolo per l’affermazione del nuovo corso politico ed etnico.
Fonti croate del tempo parlano di come uno dei compiti prioritari affidati ai poteri popolari in Istria fosse proprio quello di ‘ripulire’ il territorio dai ‘nemici del popolo’: formula che, nella sua indeterminatezza, si prestava a comprendere tutti coloro che non collaboravano attivamente al movimento di liberazione.
La cittadina di Pisino divenne il centro della repressione: vi fu creato un tribunale rivoluzionario e nel castello fu concentrata la maggior parte degli arrestati provenienti da altre località dell’Istria.
La maggioranza dei condannati fu gettata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita. Le uccisioni, secondo alcuni racconti, avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo filo di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, costretti a sopravvivere per giorni nei fondali delle foibe.
Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste vi sono quelle di Norma Cossetto3 , medaglia d’oro al valor civile, di don Angelo Tarticchio4 e delle tre sorelle Radecchi5.
La seconda e più feroce fase del genocidio
A maggio del 1945, a guerra pressoché finita, partì la seconda fase del fenomeno, quella che diede luogo al più alto numero di vittime. Gli jugoslavi con la 4° armata comandata dal generale Petar Drapšin puntarono verso Fiume, l’Istria e Trieste. L’ordine era di occupare la Venezia Giulia nel più breve tempo possibile, anticipando quindi gli alleati anglosassoni per poterla annettere definitivamente come conquista di guerra.
Per questo scopo non bastava l’azione militare di conquista, ma serviva anche l’eliminazione fisica di qualsiasi forma di dissenso, anche solo potenziale, rispetto il progetto imperialista jugoslavo di annessione dei territori dell’Istria italiana e della Venezia Giulia. Per questa ragione non furono trucidati solo i militari italiani, e non solo quelli che avevano aderito alla Repubblica sociale, e tedeschi, con violenze che furono ancor più cruenti verso i prigionieri, che quando non furono subito passati per le armi vennero deportati verso i campi di prigionia dove morirono di fame, violenze e malattie, soprattutto nel famigerato lager di Borovnica, ma persino i partigiani italiani. Bisognava infatti eliminare anche le forze che, con la legittimazione antifascista, si sarebbero accreditati agli occhi della popolazione e degli anglo-americani come i legittimi rappresentanti della popolazione di quei territori.
Ma questa carneficina non bastava, poiché per completare l’occupazione e la legittimazione della conquista di quelle terre italiane bisognava eliminare proprio la popolazione italiana. Perciò le autorità iugoslave diedero il via a un’ondata di arresti che diffuse il panico tra la popolazione italiana, soprattutto a Trieste, Gorizia e Pola. Parte degli arrestati venne subito eliminata, molti di più vennero deportati e perirono spesso in prigionia, si parla di sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe ancora vive. Obiettivi delle retate erano tutti coloro che non accettavano l’egemonia iugoslava. I baratri venivano usati per l’occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista di Jugoslavia di Tito.
Le violenze nelle zone attualmente sotto il confine italiano cessarono solamente dopo la sostituzione della amministrazione jugoslava con quella degli alleati, che avvenne a partire dal 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste; A Fiume gli alleati non arrivarono e le persecuzioni e le violenze continuarono.
La terza fase della pulizia etnica: l’esodo forzato giuliano dalmata
Al massacro delle foibe seguì l’esodo forzato della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana in Istria e nel Quarnaro, dove si svuotarono dai propri abitanti interi villaggi e cittadine. Nell’esilio furono coinvolti tutti i territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia con il trattato di Parigi e anche la Dalmazia.
L’emigrazione fu dovuta sia all’oppressione esercitata da un regime di natura totalitaria che impediva la libera espressione dell’identità nazionale, sia al rigetto dei mutamenti nell’egemonia nazionale e sociale.
«In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l’impossibilità di mantenere la loro identità nazionale – intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica – nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà».
(Relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena6.)
Da Pola, così come da alcuni centri urbani istriani partì oltre il 90% della popolazione etnicamente italiana. Si stima che l’esodo giuliano-dalmata abbia interessato un numero compreso tra i 250.000 e i 350.000 italiani tra il 1945 e il 1956.
La conclusione
Il dramma delle Foibe si concluse con la firma del Trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947 dove si stabilì che i confini tra Italia e la Jugoslavia sarebbero stati segnati dalla linea francese.
«Nessuno deve avere paura della verità. La verità rende liberi. Le dittature – tutte le dittature – falsano la storia, manipolando la memoria, nel tentativo di imporre la verità di Stato.
La nostra Repubblica trova nella verità e nella libertà i suoi fondamenti e non ha avuto timore di scavare anche nella storia italiana per ricoscere omissioni, errori o colpe.»
NOTE
- La sigla OZNA (ОЗНА) è l’abbreviazione di Odeljenje za Zaštitu Naroda (in cirillico Одељење за заштиту нaрода; in sloveno Oddelek za Zaščito NAroda), tradotto in Dipartimento per la Protezione del Popolo. Servizi segreti militari jugoslavi alle dipendenze del regime autocratico di Tito. Si costituiva di 4 reparti, spionaggio, controspionaggio, sicurezza militare, tecnica/statistica. Fu organizzata da Tito e Milovan Đilas.
- Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, 2003.
- Norma Cossetto (1920–1943), talvolta menzionata erroneamente come Norma Corsetto, fu una studentessa italiana figlia di un dirigente del Partito Nazionale Fascista, istriana di un villaggio nel comune di Visignano, fu rapita tra il 4 ottobre 1943 mentre girava tra gli archivi parrocchiali alla ricerca di materiale per la sua tesi di laurea e assassinata dai partigiani jugoslavi nei pressi della foiba di Villa Surani.
- Don Angelo Tarticchio (1907–1943) è stato un presbitero italiano, parroco di Villa di Rovigno, il 16 settembre 1943 fu arrestato da partigiani titini, malmenato ed ingiuriato insieme ad altri trenta dei suoi parrocchiani, fu quindi seviziato e gettato nella cava di bauxite di Lindaro.
- Le sorelle Fosca, Caterina e Albina Radecchi (o Radecca), vennero prelevate di notte e trasportate a Barbana, ove vennero impiegate come sguattere e violentate varie volte, fino a quando furono trucidate nell’ottobre del 1943 e gettate nella foiba di Terli (in croato Trlji) nel comune di Barbana (Istria). Il corpo di Albina venne ritrovato con una ferita da arma da fuoco alla testa, a differenza delle due sorelle minori che invece presentavano unicamente varie fratture al cranio, il che lascia intendere che furono gettate nella foiba ancora vive.
- ISGREC, Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, https://www.isgrec.it/confine_orientale_2018/materiali/relazione%20commissione%20mista.pdf.
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