Proteggere il giornalista di guerra, la situazione in Afghanistan
Abstract: Con la guerra in Ucraina ci siamo accorti quanto essenziale sia il ruolo dei giornalisti di guerra sul campo per poter raccontare la storia. Non sempre però persistono le condizioni sufficienti a garantire una sicurezza personale, soprattutto in luoghi in cui il riconoscimento dei diritti umani internazionali in primis viene a mancare, come in Afghanistan.
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I dati a riguardo
È di “Reporters sans frontières” l’ultimo reportage che ci mostra il numero di giornalisti di guerra uccisi nel corso del 2020 (tra il primo gennaio e il 15 dicembre), che è di 50 reporter. Quello che il reportage mostra è una “stabilità” nel numero dei giornalisti uccisi, nel 2019 infatti sono 53 i reporter uccisi – c’è tuttavia da considerare che nel 2020, col divampare del Covid-19, le missioni sono diminuite e quindi questo preoccupa ulteriormente, visto praticamente lo stesso numero di morti. Questi vanno ad aggiungersi al totale di giornalisti uccisi negli ultimi 10 anni, che risulta essere 937. Nel 2020, la percentuale dei giornalisti uccisi in zone di guerra è dell’84%, contro il 63% del 2019. Alcune delle morti sono avvenute in maniere particolarmente squallide e raccapriccianti, in particolare in Messico e in India, dove giornalisti sono stati decapitati, fatti a pezzi o uccisi a colpi di machete. Il lato, altrettanto difficile da accettare, è che in 9 casi su 10 l’omicida resta impunito. La lista nera delle aree più pericolose per un giornalista di guerra, relativamente al 2020, vede sul podio: l’Iraq, l’Afghanistan, l’India e il Pakistan. Proprio per questo ritengo necessario sviluppare un focus più approfondito sull’Afghanistan. Il Paese è stato nell’ultimo anno al centro dell’opinione pubblica, in particolar modo a partire dall’agosto del 2021.
L’Afghanistan
L’Afghanistan, vista la sua collocazione geografica che lo identifica come un crocevia tra Asia centrale, occidente e meridione, ha permesso che fosse attraversato nel corso della sua storia da culture e popoli delle più fattispecie differenti. Come spiega Elisa Giunchi: “l’Afghanistan è differenziato a livello di struttura produttiva e sul piano della composizione sociale, culturale, etnica e religiosa, e le caratteristiche del territorio hanno favorito questa frammentazione. A ciò si aggiunga che gli imperi limitrofi, e in epoca moderna e contemporanea le potenze europee e regionali, hanno di frequente scelto di sostenere l’uno o l’altro gruppo, sulla base di interessi geopolitici e di considerazioni etniche e religiose. Si pensi agli anni Ottanta del Novecento, quando il Pakistan ha appoggiato soprattutto le fazioni mujaheddin di etnia pashtun, l’Uzbekistan le fazioni uzbeke e l’Iran i gruppi della resistenza sciita”. Arriva però l’evento dell’11 settembre 2001. Il primo attentato terroristico di Al-Qa’ida. La mattina dell’11 settembre gli Stati Uniti sono attaccati da un manipolo di jihadisti. Degli aerei civili vengono dirottati e colpiscono simboli statunitensi: le Torri Gemelle del World Trade Center a New York e il Ministero della Difesa (il Pentagono) a Washington.“ Appena dopo l’attentato, nell’ottobre dello stesso anno, iniziò l’operazione americana Enduring Freedom, con l’intento di: distruggere le basi afghane di al-Qa’ida e sovvertire militarmente il governo talebano, che aveva permesso il dilagare dei vertici qaedisti63. L’emirato islamico nel giro di poche settimane crollò e già nel 2002 l’istituzione afghana rimase debole e priva di legittimazione. Al contempo le Nazioni Unite misero in atto la peace-keeping; ora la forza multinazionale entrava nel territorio con l’ambizioso progetto di ricostruzione e di esportazione democratica in Medio Oriente, ma soprattutto in Afghanistan. Così, il 7 ottobre del 2001, dopo l’ennesimo rifiuto da parte della dirigenza talebana di consegnare Osama Bin Laden nelle mani degli Stati Uniti, si diede il via alla Operation Enduring Freedom. L’avvio della più lunga guerra degli Stati Uniti d’America. Quasi vent’anni dopo, precisamente il 15 agosto 2021, le truppe americane abbandonano il territorio afghano e questo ha permesso ai talebani di entrare a Kabul e proclamare la nascita dell’Emirato islamico. Quella che Bush nel 2007 definì come “la più grande guerra contro il terrorismo”, un decennio e poco più dopo torna ad essere al punto di partenza. Thomas Friedman diceva sull’Afghanistan che l’alternativa sarebbe stata tra “perdere subito, perdere poi, perdere tanto, perdere poco”.
La condizione attuale
Ad oggi, ha perso, non solo l’Occidente, ma qualsiasi altra persona coinvolta all’interno di questa drammatica situazione. E a perdere sono anche la conquista dei diritti umani e la tutela che il diritto internazionale aveva provato a mantenere su questi nel corso degli ultimi decenni. Tra i report che più hanno seguito la violazione dei diritti umani nella regione afghana troviamo quelli di Amnesty International e OMCT. Nel documento “Afghanistan’s fall into the hands of the Taliban” ci troviamo di fronte ad una lista di violazioni in materia di diritti fondamentali. Dinushicka Dissanayake, la vicedirettrice di Amnesty International per l’Asia Meridionale, spiega come: “in poco più di cinque settimane, da quando hanno preso il controllo dell’Afghanistan, i talebani hanno chiaramente dimostrato la mancanza di serietà rispetto alla protezione o al rispetto dei diritti umani. Abbiamo già assistito ad un’ondata di violazioni: rappresaglie e limitazioni che toccano le donne; misure repressive contro le proteste, i media e la società civile.”
Lo stesso reportage di Amnesty parla di violazioni nei confronti dei media e della stampa da parte del regime talebano. Giornalisti che hanno visto in primis in pericolo la loro sicurezza personale, e poi la possibilità di esercitare in maniera consapevole, e soprattutto libera e tutelata, la loro professione. Ecco, quindi, che anche la stampa e la libertà di espressione è stata lesa e viene chiaramente vista dagli stessi talebani come pericolo, perché strumento utile per la diffusione di un’opinione pubblica che andrebbe in contrasto e a destrutturare i pilastri di finzioni su cui l’Afghanistan si è fondato. Se alcuni di questi giornalisti sono riusciti a scappare e confidare nelle tutele del diritto internazionale di protezione in materia di asilo politico, purtroppo non sempre tutte le storie hanno avuto lo stesso lieto fine. Nel paragrafo successivo affronteremo la storia di donne afghane, italiane e inglesi che hanno esercitato la loro professione di giornaliste a Kabul e come, nei casi più gravi, la Corte Penale Internazionale debba intervenire per rendere, almeno un po’ di giustizia, a coloro che hanno perso la vita nel tentativo del perseguimento di una libertà. Tra i casi che più hanno mosso l’opinione pubblica e hanno spinto la Corte a mobilitarsi e prendere posizione relativamente alla morte di giornalisti di guerra sul fronte, c’è stata il 10 dicembre 2020 l’uccisione a Jalalabad di Malalai Maiwand. Malalai Maiwand è stata una presentatrice televisiva e rappresentante del Centro per la protezione delle giornaliste afghane (CPA WJ).
La giornalista è stata assassinata. Pochi mesi dopo, tre impiegate di una stazione televisiva locale sono state uccise da uomini armati, mentre si recavano in redazione il giorno 2 marzo 2021. La situazione difficile dal punto di vista geopolitico e la mancanza di tutela di diritti umani, potenziati al massimo con eventi come l’uccisione di Malalai Maiwand, hanno fatto da cassa di risonanza e spinto le istituzioni e cariche più alte, anche in Italia, a muoversi verso la richiesta di un intervento più mirato, diretto e funzionale della Corte Penale Internazionale e del diritto internazionale. Tanti i giornalisti italiani che hanno chiesto un intervento all’Italia in primis nell’ottica di una salvaguardia, la scia però è iniziata in Afghanistan, dove i giornalisti del Tolonews si sono appellati con un articolo alla comunità internazionale alla ricerca di aiuto. Con una lettera aperta giornalisti, cameramen e fotografi afghani hanno invitato le Nazioni Unite, la comunità internazionale, le organizzazioni per i diritti umani e le organizzazioni di supporto dei media a proteggerli dalle incombenti minacce. Lettera che è stata pubblicata il 30 agosto 2021 e firmata da 150 giornalisti.
“Considerando le crescenti sfide e minacce che gli operatori dei media devono affrontare, così come le loro famiglie e proprietà, esortiamo le Nazioni Unite e i paesi donatori ad agire per salvare le nostre vite e le nostre famiglie”
Ecco che il ruolo della comunità internazionale risulta essere fondamentale, nel dettare in principio le tutele fondamentali e le Carte che proteggono i giornalisti, in questo caso, e nel garantire poi, nei momenti in cui le sue normative non vengono rispettate, comunque una giustizia. Giustizia che però a volte viene a mancare.
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